I due giornalisti scarcerati da una sentenza della Corte Costituzionale. Ma il presidente minaccia: «Il processo si farà». A mezzanotte è entrata in vigore la tregua in Siria ma subito è esplosa un’autobomba
AGGIORNAMENTI
ore 14 – CACCIA RUSSI FERMI, MA GOVERNO E OPPOSIZIONI SI ACCUSANO A VICENDA PER PRESUNTE VIOLAZIONI DELLA TREGUA
Mentre i jet da guerra russi restano a terra, fa sapere l’esercito di Mosca, governo e opposizioni si scambiano accuse incrociate di violazione della cessazione delle ostilità, entrata in vigore a mezzanotte. Secondo l’agenzia di Stato Sana, stamattina alcuni missili sono stati lanciati dai quartieri di Jobar e Douma, roccaforti delle opposizioni, verso zone residenziali della capitale. Rispondono le Brigate Fursan al-Haq, unità dell’Esercito Libero Siriano: i gruppi anti-Assad, dicono, hanno registrato numerose violazioni da parte governativa. Promettono di rispondere se le violazioni proseguiranno.
ore 10 – COMINCIATA LA TREGUA IN SIRIA
Da ieri notte a mezzanotte, ora locale, gli scontri tra governo e opposizioni sono cessati. Secondo fonti locali nella maggior parte del paese non si sono registrate violenze, tranne a Latakia dove – dice l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani – un’unità dell’Esercito Libero Siriano è stata attaccata e ha perso tre uomini. Non è possibile confermare se si sia trattato di scontri con l’esercito governativo.
Si continua però a morire: poco dopo l’entrata in vigore della tregua, un’autobomba è esplosa a Salamiya, ad est della città di Hama, e ha ucciso due persone. Si sarebbe trattato di un attentato perpetrato dallo Stato Islamico. Isis e al-Nusra non sono parte della cessazione delle ostilità: nelle ultime ore raid di Damasco e Mosca hanno continuato a colpire le postazioni di islamisti e qaedisti.
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di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Roma, 27 febbraio 2016, Nena News – Barba incolta, pullover rosso, un gran sorriso e il pugno chiuso: Can Dundar si è presentato così giovedì notte di fronte ad una folla in festa, fuori dal carcere di Silivri. Accanto a lui il collega Erdem Gul. Dopo 92 giorni di prigione si sono felicemente prestati a fotografie con i sostenitori e alle domande dei giornalisti che affollavano il piazzale.
«La nostra battaglia continua, abbiamo ancora molti colleghi in prigione – hanno detto ai microfoni che li circondavano – Questa sentenza apre la strada alla libertà di stampa e di espressione. La Corte ha dimostrato di essere indipendente dal palazzo».
Dundar e Gul erano stati arrestati il 26 novembre con l’accusa di spionaggio e sostegno al terrorismo. Da direttore e caporedattore del quotidiano Cumhuriyet avevano pubblicato nel maggio precedente foto, video e articoli che raccontavano dei traffici al confine tra Turchia e Siria, in particolare della tentata consegna da parte dei servizi segreti turchi di armi e equipaggiamento militare a membri dell’Isis. Ankara si era difesa: si trattava – disse il governo – di aiuti umanitari ai turkmeni.
Su di loro si era quindi abbattuta la scure della repressione di Stato, impugnata dal presidente Erdogan contro decine di giornalisti e media turchi, “colpevoli” di raccontare una verità diversa da quella governativa. Era stato lo stesso Erdogan a presentare a giugno una denuncia contro i due giornalisti.
Per questo la decisione della Corte Costituzionale, che fa cadere il castello di carte del presidente, lo lascia nudo: i giudici hanno ordinato la liberazione di Dundar e Gul perché l’incarcerazione viola i loro diritti di espressione e di libertà di stampa, secondo quanto previsto dagli articoli 19, 26 e 28 della Costituzione.
Immediata la reazione di Ankara: l’ufficio del presidente ha tenuto a sottolineare che il processo non si ferma (comincerà il 25 marzo) e che i due rischiano ancora la pena chiesta il mese scorso dal procuratore di Istanbul, due ergastoli di cui uno aggravato, che prevede cioè il quasi totale isolamento in carcere.
Ma la sentenza dell’Alta Corte fa sperare in un esito positivo, viste le basi della decisione. Uno schiaffo in faccia ad Erdogan. Fuori dalla prigione, Dundar non si è fatto scappare l’occasione di prenderlo in giro: «Oggi è il compleanno del presidente Erdogan. Siamo contenti di celebrarlo con una sentenza di scarcerazione». Una sentenza importante perché non solo prova a controbattere alla repressione istituzionalizzata di qualsiasi voce critica intrapresa dal governo dell’Akp (Reporter Senza Frontiere ha definito la Turchia «il carcere più grande del mondo per i giornalisti»), ma anche perché toglie il velo alla strategia militare in Siria, fatta di sostegno a gruppi islamisti in chiave anti-Assad e anti-kurda.
Intanto, mentre scriviamo, la cessazione delle ostilità tra Damasco e opposizioni dovrebbe entrare in vigore. La giornata di ieri è oscillata tra via libera e intensificazione dei bombardamenti, con il solito scambio di accuse tra le parti. L’Hnc, l’Alto Comitato per i Negoziati, federazione delle opposizioni, ha annunciato l’accettazione della tregua da parte dei 97 gruppi attivi sul terreno: abbasseranno le armi per due settimane, tempo necessario a verificare la buona volontà del governo.
Poco dopo, però, le stesse opposizioni denunciavano un’escalation dei raid russi e governativi su Aleppo e su quartieri controllati dai ribelli intorno Damasco. Almeno 40 bombardamenti che avrebbero ucciso 8 persone. Tra questi Ghouta, dove forte è la presenza di Jaysh al-Islam, gruppo salafita di cui per lungo tempo le due parti hanno negoziato la partecipazione al dialogo. Mosca ha negato: non sono stati compiuti attacchi sulla capitale, ma solo contro le postazioni di Stato Islamico e Fronte al-Nusra a nord.
Tra i più preoccupati ci sono i turchi, ancora alle prese con un braccio di ferro con l’alleato statunitense sulla questione Rojava. Ankara ha più volte ribadito in questi giorni di non sentirsi obbligata a rispettare la tregua, palese minaccia alle Ypg. Washington, però, non intende abbandonare il più efficace alleato militare sul campo: secondo le Sfd (Forze Democratiche Siriane, formate da milizie kurde e arabe), negli ultimi 10 giorni sono stati liberati 315 villaggi prima occupati dall’Isis nella provincia nord-orientale di Hasakah.
Ci si muove anche a Ginevra (dove l’Onu ha ospitato il primo meeting della task force che monitorerà la tregua) e a New York, dove ieri il Consiglio di Sicurezza Onu era chiamato a emettere una risoluzione che ufficializzasse la cessazione delle ostilità. Gli uffici diplomatici di Russia e Stati uniti, intanto, proseguono nel lavoro di mappatura del territorio nell’obiettivo di indicare le aree sottoposte a cessate il fuoco e quelle escluse. Ovvero le zone controllate da Isis e al-Nusra, dove continuare a bombardare.
La possibile tregua ha rimesso in moto anche l’inviato Onu Staffan de Mistura che ha proposto il 7 marzo come nuova data di apertura del negoziato di Ginevra.
Chiara Cruciati è su Twitter: @ChiaraCruciati