Il segretario di Stato americano John Kerry annuncia alla CBS che il presidente siriano dovrà essere parte della transizione. Cade l’intransigenza Usa, sotto i colpi dei fallimenti militari e diplomatici. E, soprattutto, sotto la forza dell’Iran
della redazione
Roma, 16 marzo 2015, Nena News - L’effetto domino continua. Dopo il collasso dei miliziani “moderati” creati e pagati da Washington, dopo l’apertura dell’opposizione siriana a Bashar al-Assad e dopo che, qualche giorno fa, lo stesso capo della Cia John Brennan aveva fatto sapere che gli Stati Uniti “non vogliono un collasso caotico del regime di Assad, in quanto questo potrebbe aprire la strada di Damasco all’Isis”, cede pubblicamente anche la Casa Bianca: Assad, che fino a qualche settimana fa “aveva perso ogni legittimità e doveva andarsene”, ora deve essere parte della transizione.
A dichiararlo è stato ieri il segretario di Stato americano John Kerry in un’intervista all’emittente CBS. “Alla fine – ha detto Kerry – dovremo negoziare. Siamo sempre stati disponibili a negoziare, nel contesto del processo di Ginevra I”. Il suddetto contesto, però, non contemplava la presenza di Assad nel futuro prossimo del conflitto siriano: quello che i litigiosi incontri di Ginevra tra delegazione governativa e opposizione riconosciuta dall’Occidente avevano sortito era uno stallo tacitamente accettato da tutti, con il Consiglio nazionale siriano che continuava a chiedere la cacciata immediata di Assad e il presidente che rifiutava di farlo. Nel frattempo, il numero dei morti continuava a salire e le formazioni jihadiste finanziate dal Golfo si prendevano un terzo del territorio siriano.
Con l’opposizione cosiddetta moderata allo stremo per la lotta su due fronti – milizie jihadiste e truppe governative – e la minaccia dell’Isis che fa tremare l’Europa, il cambio di strategia non solo era prossimo, ma soprattutto necessario. I primi ad annunciarlo erano stati proprio i ribelli “moderati” finanziati da Washington: “Insistiamo – aveva detto due settimane fa Khaled Khoja, capo dell’opposizione siriana – nell’obiettivo di far cadere Assad e i servizi di sicurezza. Ma non è necessario avere queste condizioni all’inizio del processo, sarà necessario alla fine del processo, con un nuovo regime e una nuova Siria”. Così il Consiglio nazionale siriano, che gode del favore della comunità internazionale e decide le sorti dei negoziati non presenziandoli pur essendo praticamente assente dal campo di battaglia, aveva aperto per la prima volta ad Assad dall’inizio del conflitto.
Ma Obama sembrava non mollare. Solo qualche giorno fa il dipartimento di Stato annunciava una nuova pioggia di finanziamenti all’opposizione siriana “moderata”: circa 70 milioni di dollari di aiuti “non letali” per combattere Assad, che avrebbero portato l’investimento statunitense su un’opposizione che in quattro anni di guerra civile appare sempre più debole a 400 milioni. Il mantra, fino a venerdì scorso, era sempre lo stesso: “Come diciamo da tempo – aveva dichiarato in un comunicato Alistair Baskey, un portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale della Casa Bianca – Assad deve andarsene ed essere sostituito con una transizione politica negoziata che sia rappresentativa del popolo siriano”.
Poi erano arrivati gli avvertimenti della Cia sul caos che potrebbe portare una Siria senza Assad letteralmente infestata dall’Isis. Ma la svolta sembra sia arrivata con le notizie in provenienza dall’altra parte della frontiera, nell’Iraq occupato dall’autoproclamato Califfato. I successi della coalizione messa su dal governo iracheno a Tikrit, che Baghdad annuncia “riconquistata all’80 per cento”, sono indirettamente opera dell’Iran. Delle 30mila truppe schierate nella regione di Niniveh, infatti, oltre 20mila sono miliziani sciiti delle unità ufficiose (come le potenti unità Badr, legate a doppio filo a Teheran) dell’esercito iracheno. Senza neanche avvalersi di una sola bomba della coalizione anti-Isis guidata dagli Usa, l’offensiva di Baghdad ha riconquistato più territorio iracheno in due settimane che i bombardamenti della comunità internazionale in mesi. E ora si fa sempre più necessario dialogare anche con la Repubblica islamica in merito al conflitto siriano.
Tutto sembra suggerire che la prossima conferenza di pace sulla Siria, che la Russia si è già offerta di sponsorizzare, questa volta includerà anche una rappresentanza della Repubblica islamica, non invitata alle precedenti edizioni del tavolo negoziale (2012 e 2014) su pressione dell’Arabia Saudita. E sebbene non sia ancora chiaro in quale misura la comunità internazionale voglia includere Damasco in un’eventuale transizione – Kerry ha spiegato ai microfoni della CBS che gli Stati Uniti, assieme ad altri paesi, stavano cercando una via per riaccendere i negoziati – sul campo si avvicina la data di inizio dell’offensiva che lanceranno i ribelli “moderati”, addestrati nel Golfo e armati dagli Usa, contro lo Stato islamico.
Assad ha già fatto sapere che qualsiasi formazione militare che non abbia il benestare di Damasco verrà combattuta come nemica. Appare quindi chiaro che qualsiasi azione bellica che la coalizione stia per intraprendere sul suolo siriano contro l’Isis necessiterà del coordinamento con Assad. E, quindi, anche con Teheran. Nena News
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