Intervista alla giornalista di Ha’aretz: “Gli attacchi dei coloni e il Price Tag sono parte di un circolo di violenza istituzionalizzato, che passa per l’esercito, i tribunali e finisce alla Knesset”.
di Chiara Cruciati
Gerusalemme, 26 febbraio 2014, Nena News – “La violenza individuale dei coloni altro non è che parte di un circolo istituzionalizzato che legalizza la brutalità e la erge a strumento di controllo e occupazione”. Amira Hass, giornalista israeliana di Ha’aretz, da 20 anni residente nei Territori Occupati – prima a Gaza, ora a Ramallah – spiega così la campagna del Price Tag, lanciata da gruppi di coloni estremisti in risposta alle decisioni (poche) di evacuazione di insediamenti illegali da parte di Tel Aviv.
Una politica che negli ultimi anni si è radicata, con attacchi sempre più frequenti a proprietà e residenti palestinese, e che ha condotto ai risultati sperati dai coloni: “Prendiamo il caso di Hebron – ci spiega la Hass – Oggi [ieri per chi legge, ndr] era il 20° anniversario della strage alla Tomba dei Patriarchi: il colono Baruch Goldstein aprì il fuoco su palestinesi in preghiera, uccidendone 29 e ferendone decine. Dopo quel massacro, la risposta di Tel Aviv fu il Protocollo di Hebron: la Città Vecchia messa sotto il controllo delle autorità israeliane è oggi una città fantasma, il cuore economico e sociale di Hebron è stato distrutto. A pagare le spese di quella strage sono stati i palestinesi. Perché? Si tratta di una politica specifica che da una parte istituzionalizza la violenza e dall’altra permette al singolo colono di ottenere il suo obiettivo, far pagare il prezzo ai palestinesi”.
“In questo modo, la violenza diventa di Stato – continua la giornalista – Una sorta di circolo di violenza che parte da quella individuale e fisica dei coloni violenti, si allarga alla violenza della polizia e dell’esercito israeliani, arriva alla violenza burocratica attraverso gli ordini militari e le leggi restrittive applicate nei Territori, giunge alla violenza perpetrata nelle corti di giustizia e si conclude nella violenza di Stato, istituzionalizzata”.
Un esempio? La Hass racconta della prima volta in cui si trovò di fronte una distesa di alberi di ulivo sradicati: 150 ulivi di proprietà di Ibrahim, contadino del villaggio di Janoud, vicino Nablus. Era il 1998: “Il villaggio si trova in mezzo a tre colonie, di cui una all’epoca era un insediamento non legalizzato. Arrivai sul posto e vidi decine di ulivi mutilati, colsi il lutto negli occhi della famiglia. Pochi mesi fa, mi è giunta notizia di un nuovo attacco, in questi 15 anni il villaggio sia stato un target dei coloni decine di volte. Ho scoperto che dal 1998 ad oggi, Israele ha confiscato migliaia di dunam di terre a favore delle tre colonie: la violenza dei coloni ha portato all’ottenimento del loro obiettivo. Lo Stato di Israele ha avviato quella macchina, quel sistema di violenza istituzionalizzata, che ha permesso l’ulteriore vessazione del popolo palestinese”.
Tali atti mostrano con chiarezza che non si tratta – nel caso del Price Tag o di altre azioni violente – della mera iniziativa di individui. Dietro, spiega la Hass, ci sono i mezzi finanziari e militari di gruppi molto più forti e delle stesse istituzioni statali che forniscono la necessaria copertura legale e economica: “Un circolo: prima la violenza individuale, poi la copertura istituzionale, seguita dalla legalizzazione della violenza. Le conseguenze finali si abbattono sul popolo palestinese sia sotto forma di attacchi diretti che sotto forma di restrizioni, confische di terre e ordini militari”.
L’obiettivo finale è quello che il progetto sionista tenta di raggiungere da 66 anni: l’espansione coloniale, l’ampliamento dei confini dello Stato di Israele e la sua natura ebraica. “Israele intende allargare il più possibile i blocchi di colonie, mangiare più territorio possibile, così che quando il prossimo Kerry arriverà qui tra 10 anni si troverà di fronte fatti sul terreno, realtà immodificabili, ovvero blocchi di insediamenti talmente ampi da non poter essere rimossi. Per questo dico che i coloni non vanno presi come individui, ma come strumenti di Stato, come progetto di Stato”.
“L’obiettivo finale è la creazione di uno Stato ebraico – conclude la Hass – Oggi Israele non può più operare come fece nel 1948 e nel 1967, con deportazioni di massa di palestinesi. Per questo tenta di raggiungere il suo scopo chiudendo i palestinesi dentro enclavi, bantustan, dove massimizzare la popolazione araba in uno spazio minimo. Gaza ne è un esempio, l’Area A in Cisgiordania ne è un esempio. E se prima tale politica veniva applicata solo ai Territori Occupati, oggi target sono anche le comunità palestinese dentro lo Stato di Israele, come i beduini in Naqab minacciati dal Piano Prawer o i villaggi in Galilea. Questo è il compromesso trovato da Tel Aviv: non potendo liberarsi del tutto del popolo palestinese, lo chiude dentro delle enclavi piccole, senza continuità territoriale tra loro, circondate e quindi controllate dalle colonie. Ecco, per questo, i coloni e la loro violenza altro non sono altro che uno strumento di Stato”. Nena News