Secondo l’agenzia Ocha, lo scorso anno 1.177 palestinesi hanno perso la casa, distrutta dai bulldozer israeliani. Tel Aviv cerca di proteggersi dalle indagini dell’Aja.
della redazione
Gerusalemme, 2 febbraio 2015, Nena News – Nel 2014 quasi 1.200 palestinesi sono rimasti senza un tetto sulla testa per la demolizione delle proprie case da parte dei bulldozer israeliani tra Gerusalemme Est e Cisgiordania. A dare i numeri di quella che i palestinesi considerano la punizione collettiva da parte di Tel Aviv, sono le Nazioni Unite: secondo l’agenzia dell’Onu Ocha, nell’anno appena trascorso le forze militari israeliane hanno distrutto le case di 969 palestinesi in Cisgiordania e di 208 a Gerusalemme Est, per un totale di 1.177 residenti la cui casa è stata rasa al suolo.
“Nel 2014, secondo i dati Ocha, le autorità israeliane hanno distrutto 590 strutture palestinesi in Area C della Cisgiordania e a Gerusalemme Est, lasciando senza un tetto 1.177 persone, il più alto livello di dislocamento in Cisgiordania da quando l’agenzia ha cominciato il monitoraggio, nel 2008 – si legge nel rapporto pubblicato ieri – Le politiche di pianificazione israeliane in Area C e a Gerusalemme Est discriminano i palestinesi”.
Una politica che non è certo cessata con l’inizio del nuovo anno: in soli tre giorni, spiega James Rawley, coordinatore dell’Ocha, dal 23 al 26 gennaio 2015 “77 palestinesi, di cui la metà bambini, hanno perso la casa. Alcune delle strutture demolite erano state donate dalla comunità internazionale per sostenere le famiglie vulnerabili. Le demolizioni che hanno provocato trasferimento forzato e dislocamento sono in contrasto con gli obblighi previsti dal diritto internazionale”. Dal primo gennaio 2015, sono state distrutte 77 case palestinesi, 110 i residenti rimasti senza un tetto.
Eppure, nonostante i soldi spesi per fornire aiuti umanitari alla popolazione palestinese (con una mano, perché con l’altra si rifornisce Israele degli strumenti per distruggere gli aiuti stessi), la comunità internazionale non alza la voce contro le violazioni di Tel Aviv. Che prosegue indisturbato con le proprie politiche di espansione coloniale e trasferimento silenzioso della popolazione palestinese: sabato notte un giovane di 19 anni, Ahmad al-Najjar, è stato ucciso dal fuoco dell’esercito israeliano a Nablus; gli attacchi alle barche dei pescatori di Gaza (nonostante il cessate il fuoco firmato il 26 agosto) sono quotidiani; la demolizione di piccole infrastrutture contadine in Cisgiordania prosegue (questa mattina è toccato a due fattorie e ad un pozzo nel villaggio di Qusra, sud di Nablus, costruiti con i soldi del governo francese).
Ma se la comunità internazionale non agisce, a preoccupare Israele è l’adesione della Palestina alla Corte Penale Internazionale. Un rapporto pubblicato ieri dal Ministero degli Esteri di Tel Aviv definisce “di parte” la posizione assunta dal tribunale dell’Aja e cerca di valutare se esistano effettivamente basi giuridiche per indagare crimini di guerra israeliani.
Prima di tutto, secondo il Ministero, l’adesione della Palestina fondata sullo status legale di Stato rimane controversa, elemento che potrebbe far perdere tempo alla Corte e che “getta dubbi sulla credibilità del pubblico ministero”, si legge nel rapporto: la Corte ha riconosciuto la Palestina membro basandosi sul riconoscimento di Stato non membro dell’Onu, da parte dell’Assemblea Generale; l’Assemblea è però un organo politico, dice Israele, e non una persona giuridica, ovvero non avrebbe l’autorità di riconoscere uno Stato.
Tel Aviv va alla caccia di espedienti tecnici per evitare il giudizio della Corte. Ma per ora dorme sonni tranquilli: fino a quando le pressioni non arriveranno dalla comunità internazionale, il progetto israeliano di espansione è salvo. Venerdì scorso è stato pubblicato un nuovo piano di costruzione per 430 case per coloni tra Cisgiordania e Gerusalemme Est. Nena News