L’8 luglio del 2014 Israele iniziava l’offensiva “Margine protettivo” sul piccolo lembo di terra palestinese. Un gruppo di organizzazioni non governative internazionali ha ieri denunciato la lentezza nella ricostruzione di Gaza. Amnesty International, però, accusa Hamas e Tel Aviv: “nessuno di loro ha pagato per i crimini commessi”
della redazione
Roma, 8 luglio 2016, Nena News – A due anni dall’offensiva israeliana “Margine protettivo”, poco o nulla è cambiato nella Striscia di Gaza. A denunciare il ritmo lento nel ricostruire il piccolo lembo di terra palestinese sono state ieri alcune ong internazionali. Secondo queste organizzazioni non governative, questa lentezza è dovuta principalmente al blocco che Tel Aviv continua a mantenere sulla Striscia e che permette l’ingresso soltanto di pochi materiali necessari per costruire. La motivazione fornita dall’esercito ebraico per spiegare l’ingresso con il contagocce di aiuti umanitari è sempre la stessa: potrebbero cadere nelle mani “sbagliate” (ovvero quelle degli islamisti di Hamas) e, di conseguenza, essere impiegati in un nuovo conflitto con Israele.
Amnesty International (AI) ha però anche affermato come sia insostenibile che a due anni dal conflitto nessun procedimento penale per “crimini di guerra” è stato aperto contro israeliani e palestinesi. “Al momento – ha scritto la ong britannica in un report rilasciato ieri – solo tre soldati israeliani sono stati accusati per l’offensiva. Tutti, per giunta, per reati minori”. “Il fatto che nessuno sia stato ancora incriminato per crimini di guerra – sebbene sia evidente che entrambe le parti li abbiano commessi – è assolutamente indifendibile” ha rincarato la dose Philip Luther, il capo del Dipartimento del Medio Oriente e del Nord Africa di Amnesty. “Due anni sono passati ed è ora che le ruote della giustizia inizino a girare”.
In effetti, finora tutto o quasi è rimasto fermo. Eppure le conseguenze gravissime provocate dell’operazione “Margine protettivo” – secondo dati Onu, nei 51 giorni di guerra del luglio-agosto del 2014 sono state più di 2.200 le vittime palestinesi (72 sul versante israeliano), 120.000 le case parzialmente danneggiate, 20.000 quelle totalmente inabitabili – avrebbero dovuto richiedere maggiore attenzione da parte della cosiddetta comunità internazionale. Ma ciò non è avvenuto.
Un dato spiega più di mille parole il fallimento della diplomazia: le Nazioni Unite hanno impiegato più di un anno per ricostruire la prima casa distrutta. Un elemento allarmante, ma politicamente significativo di quanto poco conti ora in sede internazionale la causa palestinese. In primo luogo a causa del mondo arabo islamico sempre più interessato ed impegnato in una feroce guerra settaria per il dominio della regione mediorientale.
Ma se AI pone sullo stesso piano palestinesi e israeliani non tenendo in dovuta considerazione la sproporzione di forza tra i primi e i secondi (evidenziato anche dal numero di vittime e dai danni provocati alle strutture civili), l’obiettivo del documento rilasciato ieri dall’unione di varie ong internazionali che lavorano in Israele e nei Territori occupati palestinesi (Aida), sono le conseguenze “dell’assedio” israeliano su Gaza. Secondo Aida, infatti, è proprio il blocco imposto da Tel Aviv “quello che impedisce seriamente la ricostruzione della Striscia”. “Finché non verrà rimosso – ha affermato il direttore di Aida, Chris Eijkemans – i gazawi non potranno andare avanti e vivere in libertà, dignità e al sicuro”.
Il quadro è allarmante: nonostante siano state costruite nuove strade, sono ancora molte le aree che sono isolate. L’economia è crollata: secondo le stime fornite dagli enti di ricerca palestinesi, il tasso di disoccupazione è al 45% (uno dei più alti al mondo) mentre il lavoro minorile è raddoppiato negli ultimi cinque anni.
E a peggiorare il quadro già di per sé allarmante è che lo spettro di una nuova guerra (la quarta dal 2008) continua ad aleggiare a Gaza. Un possibile attacco da parte di Tel Aviv sembrò essere imminente alcuni mesi fa quando Israele scoprì due tunnel di Hamas usati, dichiarò allora l’esercito, per raggiungere il territorio israeliano e compiere un attacco. Un duro botta e risposta a maggio tra i leader di entrambe le parti sembrava aver confermato i primi venti di guerra. Tuttavia, con il passare dei giorni, i toni si sarebbero calmati e il conflitto annunciato da qualche fonte locale per imminente veniva messo in stand by.
Che la situazione a Gaza sia drammatica è confermato dai numeri forniti dall’Unrwa (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi): ancora oggi 900 palestinesi necessitano di cure mediche a causa di disabilità permanenti provocate da Margine Protettivo. “Alcuni pazienti soffrono dalle ferite riportate due anni fa in guerra e sono ancora in attesa delle protesi” ha detto all’Urwa il dottore Mahmoud Matar, chirurgo ortopedico presso l’ospedale Shifa’a di Gaza.
L’Agenzia Onu ha sottolineato come “le lunghe liste di attesa hanno frustrato molti cittadini che affrontano rischi di salute elevati a causa dei ritardi nel ricevere le cure”. Cure ritardate non solo per la mancanza di materiale, ma soprattutto perché molte infrastrutture sanitarie restano seriamente danneggiate. Durante la guerra l’ospedale al-Wafa’a di Gaza e tre cliniche saniterie sono state completamente distrutte. A questo elemento bisogna aggiungerne un altro: ben 18 ospedali e 60 cliniche sono stati danneggiati nei 51 giorni di guerra del 2014. Nena News