La Casa Bianca definisce la campagna elettorale di Bibi “cinica” e prospetta un cambio di rotta in sede Onu. Netanyahu corre ai ripari: “Voglio la pace”. Ma il premier ha poco da temere: il Congresso Usa lo sostiene e la lobby ebraica è ancora cruciale.
della redazione
Gerusalemme, 20 marzo 2015, Nena News – Un terremoto potrebbe travolgere le tradizionali e fortissime relazioni tra Stati Uniti e Israele. Un terremoto chiamato Netanyahu. La rielezione del primo ministro martedì scorso non ha fatto fare i salti di gioia al presidente Obama, con cui i rapporti sono da tempo sfibrati. Ma se in Medio Oriente esisteva una certezza era l’appoggio incondizionato da parte di Washington a qualsiasi premier israeliano.
Anche quella certezza, ora, potrebbe sbriciolarsi: ieri l’amministrazione Obama ha sollevato la possibilità di ritirare la propria copertura diplomatica a Israele alle Nazioni Unite, se la rinnovata leadership proseguirà nel dichiarato obiettivo di boicottare la soluzione a due Stati. Bibi lo aveva annunciato il giorno prima delle elezioni del 17 marzo, nell’estremo tentativo – riuscito – di accaparrarsi i voti della destra e del centro-destra: “Se vinco io, non ci sarà mai uno Stato di Palestina”.
Una dichiarazione che, se ai palestinesi non è suonata affatto nuova, ha preoccupato Unione Europea e Casa Bianca. Entrambi sanno bene che sul terreno Israele ha sempre impedito, attraverso la colonizzazione selvaggia dei Territori e le intoccabili pre-condizioni poste al tavolo del negoziato, il raggiungimento di un accordo di pace definitivo. Ma simili dichiarazioni spaventano. Provocando l’impensabile: la campagna elettorale è stata “cinica e divisiva”, dicono gli Usa, “un tentativo abbastanza chiaro di marginalizzare gli arabi cittadini israeliani”.
“I passi che gli Stati Uniti hanno compiuto alle Nazioni Unite sono stati basati sull’idea che la soluzione a due Stati sia il miglior risultato – ha detto ieri il portavoce della Casa Bianca, Joshe Earnest – Ora il nostro alleato ha detto che non si ritiene più impegnato a raggiungere tale soluzione. Ciò significa che dovremo rivalutare la nostra posizione in materia”.
Se davvero gli Stati Uniti abbandonassero Israele nella giungla delle Nazioni Unite, dove spesso a salvare Tel Aviv da risoluzioni e condanne è stato il veto Usa, per Netanyahu potrebbe mettersi male. Dopotutto Israele vive grazie ai finanziamenti statunitensi che coprono buona parte del budget dell’esercito e della sicurezza e se la rottura si concretizzasse molte delle politiche israeliane potrebbero restare a secco.
Meglio correre ai ripari. Così ieri il premier confermato si è presentato alla tv Msnbc per un’intervista nella quale rassicura l’alleato: erano solo chiacchiere da campagna elettorale, la soluzione a due Stati resta un faro anche per Israele. “Non voglio uno Stato, ma una soluzione a due Stati sostenibile, ma per questo le circostanze devono cambiare. Non si può imporre la pace. E in ogni caso, se si vuole la pace, la leadership palestinese deve abbandonare il patto con Hamas e impegnarsi in negoziati genuini con Israele per una pace possibile”.
In tv Bibi ha ripetuto che uno Stato di Palestina potrà nascere se demilitarizzato e se la leadership palestinese riconoscerà Israele come Stato ebraico, una richiesta che l’Anp non a mai voluto accettare per le conseguenze che provocherebbe sui palestinesi cittadini israeliani, il 20% della popolazione totale di Israele.
Insomma, cambia ben poco. La visione israeliana resta la stessa e su simili basi appare davvero improbabile la ripresa di un negoziato che sta fallendo da 20 anni. La vittoria di Netanyahu, ora il leader più longevo di Israele, preoccupa Obama che non si è neppure congratulato con Bibi per la rielezione. Il falco israeliano tenta di correre ai ripari e annuncia in tv di aver parlato al telefono con il segretario di Stato Kerry e di voler parlare con il presidente al più presto per poter “lavorare insieme”.
Alla fine, i due si sono parlati: in serata, ieri, Obama ha telefonato a Betanyahu e ha ripetuto quanto anticipato dal suo portavoce. Il presidente Usa è frustrato dai tanti fallimenti registrati in Medio Oriente, dall’avanzata dell’Isis alla disintegrazione dell’Iraq, di cui mercoledì ha dato la colpa proprio all’invasione Usa. Sul processo di pace Israele-Palestina si è giocato molto. E lo vede crollare ogni giorno di più. Che a pagarne il prezzo possa essere l’alleanza storica con Israele? Difficile da credere. Obama è in netto calo di consensi, con un Congresso contro, a maggioranza repubblicana. Il prossimo presidente potrebbe tornare ad essere un repubblicano, partito legato a doppio filo a Israele e che il 3 marzo ha servito su un piatto d’argento a Netanyahu la rielezione invitandolo a parlare al Congresso nonostante la contrarietà della Casa Bianca.
Senza dimenticare la potentissima lobby ebraica statunitense, il cui denaro da decenni decide chi vince e chi perde le elezioni. Nena News
Il Governo Netanyahu non ha fatto che proseguire la politica di tutti i governi israeliani, da Ben Gurion ad oggi: la creazione di uno Stato Ebraico, dal Giordano al Mediterraneo, che includa anche la Sytriscia di Gaza. L’alleanza con gli USA e l’Europa è necessaria allo scopo, e Netanyahu si sente tanto forte per l’appoggio della lobby pro-Israele negli Stati Uniti da sfidare Obama, come dimostrato con il discorso al Congresso dove lo hanno invitato gli oppositori di Obama. L’opposizione al progetto israeliano, razzista ed antidemocratico, può aver successo solo se in Europa ed in America l’opinione pubblica impone alle dirigenze politiche di costringere Israele a più miti consigli. Sembra che qualche progresso si stia facendo, in USA ed in Europa: si potrebbe utilizzare le celebrazioni della Resistenza per mettere in evidenza che la politica razzista e colonialista di Israele è incompatibile con i principi della lotta di Liberazione dal nazifascismo.
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