Il racconto delle manifestazioni, da giovedì scorso a oggi. Nelle piazze del paese nessuna bandiera di partito, presenti tutte le classi sociali, religiose e politiche, unite dalla frustrazione per la crisi economica e la corruzione dilagante
di Roberto Renino
Beirut, 21 ottobre 2019, Nena News – “Ash-shab yurid isqat an-nizam” riecheggia dopo anni tra le strade di Beirut, “Il popolo vuole la caduta del sistema”. Migliaia di persone sono scese per le strade della capitale per protestare contro l’ultima decisione del governo: tassare le chiamate vocali su Whatsapp e attraverso altre applicazioni simili. L’annuncio è arrivato nel pomeriggio di giovedì 17 ottobre per voce dal ministro delle telecomunicazioni, Mohammed Choucair che annunciava la decisione presa dal suo gabinetto di introdurre una tassa sui servizi VoIP (Voice over IP), ovvero tutti i servizi offerti da applicazioni che utilizzano la rete per effettuare chiamate.
L’entrata in vigore prevista per gennaio 2020 avrebbe introdotto l’applicazione di una tassa giornaliera di 0.20 centesimi di dollaro, per un totale di circa 6 dollari al mese. Le proteste scoppiate nel tardo pomeriggio hanno però portato a un repentino dietrofront del governo, lo stesso Choucair ne ha annunciato l’abolizione dopo le pressioni del primo ministro Saad Hariri.
Ciononostante, le proteste sono continuate per le strade di Beirut e scoppiate anche in molte altre città libanesi come Tripoli, Baalbeck, Batroun e Tiro, diffondendo le rivolte da nord a sud del paese. Durante il primo giorno, in varie zone della capitale sono stati incendiati pneumatici, cassonetti e cartelloni pubblicitari; molte strade sono state bloccate da barricate improvvisate.
Iniziata tra le strade di Downtown, nei pressi del parlamento, la protesta ha raggiunto i vari quartieri della città, fino alla periferia sud. Il primo incidente si è registrato durante le prime ore della serata, quando una guardia del corpo del ministro dell’educazione ha sparato alcuni colpi in aria, nel tentativo di allontanare la folla che si stava avvicinando alla macchina dove era con la famiglia. Poco dopo, è stato colpito con un calcio in pieno ventre da una donna che è subito diventata uno dei simboli della rivolta popolare contro la classe dirigente. Il bilancio della prima giornata è stato di due morti e un centinaio di feriti tra agenti della sicurezza e civili. Le vittime, due siriani che hanno perso la vita soffocati dal fumo bloccati in un locale al di sopra di un negozio dato alle fiamme, sono state recuperate durante le prime ore del mattino di venerdì.
La rabbia e la frustrazione sono esplose il giorno dopo. Quasi in tutte le città si è assistito a episodi di violenza e scontri. Nella capitale, le strade principali sono state bloccate da cassonetti rovesciati e incendiati, insieme a barricate improvvisate. Il lussuoso e quasi disabitato centro della città è quello che ha visto il più alto assembramento di persone. Nere colonne di fumo si sono levate da vari punti della piazza antistante la grande moschea al-Amin: una consistente folla di persone ha fatto irruzione nei cantieri di edifici in costruzione, alimentando i roghi già accesi con tutto quanto trovato all’interno.
Recinzioni divelte e vetri in frantumi; nella prima serata è stato appiccato il fuoco al primo piano di uno dei palazzi ancora in costruzione. L’arrivo dei pompieri è stato impedito dagli stessi presenti che hanno alzato barricate e lanciato sassi per evitare che il fuoco venisse spento. I vigili del fuco hanno operato solo dopo l’intervento dell’esercito, dispiegato a difesa dell’autobotte. Esercito e polizia sono intervenuti anche durante la notte, scontrandosi con parte dei manifestanti e arrestandone sommariamente decine, tutti rilasciati nei giorni seguenti. Altri scontri sono stati registrati a Baabda, località dove ha sede il palazzo presidenziale.
Sabato e domenica invece, il Libano attende che passino le 72 ore promesse dal primo ministro Hariri per risolvere la crisi. Oggi alle ore 18 verranno rivelate le decisioni prese in merito al destino del governo: riforme o dimissioni. Alcune riforme sarebbero già state discusse e riguardano la privatizzazione del settore delle comunicazioni e dei provvedimenti per risanare le disastrate infrastrutture dell’energia, che non sono sufficienti a fornire elettricità all’intera popolazione in modo stabile.
Ma le piazze non sono rimaste a guardare. Un flusso sempre crescente di persone ha continuato ad esprimere la propria frustrazione e saturazione di una situazione che va avanti da anni senza cambiamenti. Sotto l’unico simbolo della bandiera libanese, la folla ha dimostrato, forse per la prima volta nella sua storia, di voler superare ogni differenza per combattere l’unico vero nemico: la classe dirigente corrotta.
Dopo i forti eventi di venerdì, a Beirut non sono stati registrati simili episodi di violenza, la manifestazione si è ben presto trasformata in una festa che ha raggiunto il suo apice nel tardo pomeriggio di domenica, quando strade e piazze del centro sono state completamente riempite dalla folla. La rabbia dei primi due giorni di protesta non è svanita, ma si è stemperata nella complicità quasi incredula della gente che si è pian piano riappropriata di strade, edifici e simboli. Hanno partecipato indistintamente persone di classi sociali e comunità religiose differenti (in Libano 18 ufficialmente riconosciute), a dimostrazione che la corruzione, l’eccessiva ingerenza della politica nell’economia e la gestione feudale della politica sono i problemi strutturali che affliggono l’intera popolazione, in maniera trasversale e trans-settaria. A testimonianza di ciò, alcuni leader religiosi cristiani, sunniti e sciiti hanno sfilato insieme, sottobraccio, insieme alla folla.
Situazione leggermente differente in altre città: a Tripoli, nel nord del paese sono stati registrati due morti e una decina di feriti dopo che la guardia del corpo di un parlamentare ha sparato sulla folla in risposta al lancio di bottiglie contro il suo protetto, indesiderato sul luogo della manifestazione. Anche Tiro ha vissuto momenti di tensione quando uomini legati al partito sciita Amal hanno attaccato dei manifestanti che protestavano contro Nabih Berri, presidente del partito dal 1980 e presidente del parlamento libanese dal lontano 1990. Berri, 81 anni, è però anche uno dei politici nel mirino della folla, insieme a Gebran Bassil, ministro degli affari esteri e leader del Free Patriotic Movement, partito cristiano a cui appartiene anche il presidente della Repubblica Michel Aoun.
Le proteste si inseriscono dunque in un contesto già complesso che mette in risalto le numerose contraddizioni del paese dei cedri. La crisi è sia politica che economica: la corruzione dilagante (che costa allo Stato circa 4.8 miliardi di dollari secondo un report della Audi Bank), il disastrato apparato infrastrutturale, che impedisce la distribuzione equa e stabile di elettricità ed acqua e le forti ineguaglianze sociali dovute ad anni di politiche neoliberiste e altamente speculative, hanno contribuito ad esasperare una realtà già vicina al collasso. Dallo stallo per la formazione del governo dopo le elezioni del 2018 infatti, il Libano è ulteriormente precipitato nella profonda crisi economica e finanziaria da cui era già afflitto.
La situazione ha raggiunto il culmine lo scorso due settembre, quando il governo ha dichiarato lo “stato di emergenza economico”, annunciando l’introduzione di potenziali severe riforme per arginare la crisi. Nei primi di ottobre, un’annunciata (ma non eseguita) manovra di svalutazione della lira libanese ha spinto le banche a bloccare l’erogazione di dollari dagli sportelli automatici e i cambi di grosse somme, preoccupando la popolazione. A tutto ciò si sommano le ripercussioni della gestione della crisi dei rifugiati siriani, che in Libano ancora oggi compongono un terzo della popolazione totale. In un paese sempre più affollato, con circa due milioni di persone (rifugiati siriani e palestinesi) tagliati fuori dal mercato del lavoro e costretti a un’esistenza di illegalità forzata, le azioni del governo non procedono nella direzione dello sviluppo ma piuttosto del mantenimento di uno status quo in fragile equilibrio.
La sfida di questi quattro giorni di proteste è proprio quella di sovvertire questo equilibrio, sebbene non sia ancora nata nessuna alternativa concreta all’attuale stato delle cose. La piazza per adesso si limita a chiedere le dimissioni del governo e delle riforme che possano salvare il Libano dalla crisi senza però colpire i suoi cittadini e gravarli di ulteriori imposte come la “Whatsapp Tax”, che avrebbe colpito trasversalmente la popolazione, in un paese dove le tariffe imposte dagli unici due gestori telefonici sono tra le più care e proibitive della regione.
Ma un’altra sfida, già vinta, è quella di trasformare la rabbia e la frustrazione in solidarietà, ironia e voglia di cambiamento al fine di innescare quella thawra, la rivoluzione, che già vive scritta in mille forme sui muri e cantata da migliaia di voci diverse all’unisono. Nena News