Intervista a Kamel Mohanna, direttore della Ong libanese “Amel” che si occupa dell’accoglienza dei rifugiati siriani
di Sonia Grieco
Roma, 26 maggio 2014, Nena News – Il peso della crisi siriana sul Libano ha ormai assunto dimensioni enormi in termini di impatto economico, sociale e di sicurezza. Circa 50.000 persone al mese attraversano il confine per cercare rifugio nel Paese dei cedri che adesso pensa a meccanismi di limitazione – o selezione – all’accesso e ad aprire campi di accoglienza. Provvedimenti discussi in Commissione ministeriale, i cui dettali però non sono noti né chiari, ma che al momento restano sullo sfondo del dibattito politico, concentrato invece sull’elezione da parte del Parlamento del presidente: il mandato di Michel Sleiman è infatti scaduto ieri 25 maggio.
Beirut negli ultimi tre anni ha lasciato aperte le sue frontiere, anche se sono stati più volte denunciati casi di respingimenti, spesso di palestinesi siriani, ma gli arrivi non si sono mai fermati e per molti l’emergenza durerà ancora a lungo, mettendo a repentaglio anche la tenuta del Libano. “È come se in Italia arrivassero in un breve lasso di tempo nove milioni di persone in cerca di aiuto”, ha detto Kamel Mohanna, direttore della Ong libanese “Amel”, che apre alla possibilità di discutere nuove regole, ma ricorda che la crisi siriana non può gravare soltanto sulle spalle del Paese dei cedri e che all’accoglienza va affiancato un deciso lavoro politico per mettere fine alla guerra in Siria.
Cosa ne pensa del nuovo piano al vaglio del governo per affrontare l’emergenza profughi siriani in Libano? Limitazioni all’accesso e campi di accoglienza, è una risposta adeguata?
“La crisi siriana è unica nella storia in quanto a numero di rifugiati che sono scappati in Paesi confinanti come il nostro. È la prima volta dai tempi del Ruanda che un così alto numero di persone non cercava rifugio in Stati limitrofi e sia i libanesi sia i palestinesi che vivono in Libano hanno mostrato grande solidarietà e generosità nei confronti dei siriani, ma l’impatto è enorme. Le infrastrutture -scuole, ospedali, trasporti, ecc…- sono sature e non possono rispondere a tutti i bisogni, è necessario fare qualcosa e la possibilità di aprire campi al confine, di accogliere un numero limitato di profughi e di predisporre fondi per i rimpatri va valutata”.
Non c’è il rischio che le limitazioni all’ingresso dei profughi violino il diritto di queste persone a cercare rifugio lontano dalle violenze?
“Queste opzioni vanno tutte valutate con attenzione, la cosa fondamentale è tutelare chi scappa. Come “Amel” pensiamo che sia importante lavorare e fare pressione affinché tutti gli Stati del mondo, inclusi quelli europei, si attivino per accogliere i profughi siriani. In Libano al momento ci sono oltre 1,5 milioni di siriani, pari a un quarto della popolazione del Paese. Riuscite a immaginare una cosa del genere in Italia? Riteniamo che sarebbe appropriato lanciare una campagna di solidarietà internazionale con i siriani”.
Beirut ha sempre osteggiato l’apertura di campi e anche il piano di cui si è discusso nelle ultime settimane parla di insediamenti vicini al confine, mentre le regole umanitarie stabiliscono che i campi siano aperti in zone sicure, almeno 50 chilometri dalle aree di conflitto. È chiaro che è tutto da stabilire, ma l’apertura dei campi aiuterebbe il vostro lavoro?
“Ci sono 980 insediamenti informali in Libano e questo è un tema che abbiamo sempre sollevato con le istituzioni, l’Onu e le Ong internazionali. Quale che sia la risposta umanitaria che sarà decisa, quello che davvero serve in questo momento è trovare una soluzione politica al conflitto in Siria. Secondo alcuni analisti, lo stallo politico in Libano e la crisi siriana dureranno ancora a lungo. Va valutata la possibilità di aprire insediamenti”.
Qual è la sfida più difficile che incontrate nel vostro lavoro?
“Ce ne sono parecchie: per esempio, abbiamo difficoltà a dare risposte adeguate a tutti i bisogni dei profughi. I fondi sono limitati e siamo molto preoccupati che diminuiscano ulteriormente. Sul campo i problemi sono tanti: non si riesce, per esempio, a sostenere la richiesta di trattamenti sanitari per disturbi cronici o interventi chirurgici. Le infrastrutture non riescono a soddisfare la domanda di servizi: nella scuola il numero di alunni siriani è più alto di quelli libanesi e non tutti i bambini siriani possono accedere all’istruzione. La maggioranza non va a scuola. La domada è: qual sarà il futuro di questa generazione? Inoltre, c’è una crescente competizione per il lavoro e per la casa tra siriani e libanesi, con conseguenti tensioni sociali che peggiorano la situazione della sicurezza. Questa alle porte sarà un’estate dura, non ha piovuto abbastanza ed è facile prevedere che l’acqua non sarà sufficiente per libanesi e siriani”. Nena News