Terza puntata del reportage dal Paese dei Cedri: a Bebnine la tradizionale attività di realizzazione delle reti da pesca, da sempre in mano alle donne, diventa uno strumento di sostegno economico e psicologico. E per i bambini l’occasione di giocare liberi
di Maria Luisa Colli
Per la seconda parte si legga qui
Bebnine, 22 ottobre 2018, Nena News – Un tassista di Bebnine afferma che lì “ma fi al-daul”, non c’è lo Stato e non ci sono aiuti statali. Non c’è niente. A essere presenti sono forse solo le ong. Zona di scontri anche perché zona di frontiera, a soli 20 km dal confine siriano, dunque zona di migranti e profughi e, per tutte queste ragioni, zona di ong. Ad Aabdeh e a Bebnine le tracce lasciate dalle organizzazioni internazionali impegnate sul campo sono ben visibili, nelle targhe come quelle che si possono leggere al porto di Aabdeh o sui teloni utilizzati per la copertura delle serre a Bebnine, sui quali si legge la sigla azzurra dell’Unhcr.
Altre ong finanziano invece dei progetti di altro tipo: progetti mirati a insegnare alle donne a costruire reti da pesca. Programmi di questo tipo si possono trovare solo a Bebnine, dove sono stati attivati a partire dal 2013.
H., una delle responsabili nonché ideatrice del progetto, spiega che progetti simili sono nati pressoché naturalmente in una città come quella di Bebnine, dove tradizionalmente le donne svolgono queste attività per i loro padri, fratelli, zii e mariti. Lei stessa, del resto, proviene da una famiglia di pescatori ed è stata proprio lei a insegnare a tante donne a tessere le reti nell’ambito di questi progetti. H. racconta di aver imparato da piccola e ricorda di quando toccava a lei lavorare ore e ore per costruire le reti che il padre e gli zii avrebbero poi utilizzato in mare.
Figlia maggiore, su di lei hanno sempre pesato molte responsabilità. Lavorava di notte perché di giorno andava a scuola e nel pomeriggio doveva accudire le sorelle e i fratelli minori e la madre gravemente malata. Era un lavoro lungo e faticoso, che le imponeva di passare parecchio tempo seduta a terra e le causava dolori alla schiena e agli occhi, affaticati dal lavoro notturno.
E tuttavia è un lavoro che fa parte della storia e della tradizione e che sta alla base di una delle principali attività economiche della regione. Infatti, è un mestiere assolutamente indispensabile e complementare a quello della pesca propriamente detta. Si tratta dunque di insegnare a delle donne che vivono in situazioni di precarietà sociale ed economica a svolgere un’attività che, in linea teorica, potrebbe essere facilmente spendibile nel contesto locale.
In realtà, spiega H. esprimendo con la voce e con lo sguardo tristezza e rammarico, una volta finito il progetto, “non si sa”: le donne che vi hanno partecipato, infatti, non riceveranno più uno stipendio e non avranno nemmeno più la possibilità di continuare con questa attività autonomamente, non avendo modo di procurarsi il materiale e vendere le loro reti ai pescatori, guadagnando qualche soldo per contribuire al bilancio famigliare.
E si tratta di famiglie che hanno una forte necessità di un sostegno economico. Alcune di queste donne sono siriane fuggite dal loro Paese a causa della guerra che sta distruggendo le loro case, le scuole dei loro figli, i posti di lavoro dei mariti e gli ospedali e che, in definitiva, sta rendendo loro la vita impossibile. Una vita però che è estremamente difficile ricostruire in Libano, dove i siriani sono interdetti dall’esercizio di numerose professioni.
Anche per questo H. ha deciso di diventare per queste donne uno “strumento”, un intermediario, un datore di lavoro. In quei periodi di intervallo fra un progetto e l’altro, H. compra il materiale e a lo porta alle donne che, grazie a questi programmi, hanno imparato a fabbricare le reti da pesca. Dopodiché H. vende il prodotto finito ai pescatori e ripaga le donne con il prezzo delle reti da loro realizzate.
È un lavoro che altrove può esistere indipendentemente dai progetti che le ong finanziano a Bebnine e dall’aiuto di volontari come H. Ma questa riscontra in molti casi forme di sfruttamento del lavoro femminile. Molte donne, infatti, vengono pagate dai pescatori che ne comprano le reti intorno alle 6mila lire libanesi (poco più di tre euro), mentre lei dà alle “sue” donne 12mila-14mila lire libanesi.
Questi progetti sono pensati soprattutto per quelle donne che, a causa di particolari situazioni familiari e della precarietà socioeconomica, trascorrono abitualmente le loro giornate a casa e non avrebbero altrimenti modo di apprendere né questo né altri mestieri. I progetti, di conseguenza, incidono sia sul piano materiale sia su quello sociale e psicologico. Da un lato, infatti, prevedono uno stipendio immediato per le partecipanti al programma o le formano affinché esse possano entrare nel “mercato del lavoro”, dall’altro essi offrono una “via d’uscita”, un’opportunità di uscire dalle proprie case e trascorrere alcune ore in un contesto completamente diverso dal quotidiano.
Le beneficiarie dirette
Le beneficiarie dirette – per utilizzare il tipico lessico della programmazione sociale e della cooperazione allo sviluppo – che partecipano a due di questi progetti – l’uno promosso e finanziato dall’Irc e l’altro dal Drc – sono state selezionate in virtù della loro situazione socioeconomica e famigliare. È la stessa H. ad aver realizzato dei tour nei quartieri più poveri della città e ad aver svolto delle prime interviste con le donne interessate.
L’obiettivo è di raccogliere le informazioni necessarie per riempire il formulario dell’Organizzazione. I dati che più interessano sono quelli che concorrono a determinare il livello sociale della donna: età, grado di istruzione, stato civile e, soprattutto, numero di figli. In effetti, molte delle donne che partecipano a questi progetti appartengono a famiglie numerose: sono madri di sette, dieci, dodici figli, sono figlie con altrettanti fratelli. Ci sono poi vedove o mogli di uomini disoccupati.
Le situazioni di partenza sono dunque simili, ma le aspettative possono variare. Per esempio, la sorella di H. è stata accettata all’interno del programma perché è solo in questo modo che potrà permettersi di proseguire gli studi, iscriversi all’università e studiare letteratura araba. C’è poi una giovane ragazza che mi racconta di aver deciso di partecipare al programma per poter poi continuare a svolgere questa attività a casa e aiutare così suo padre e i suoi zii pescatori. La loro è una famiglia numerosa, con tanti figli. La figlia maggiore è sposata e vive da sola, mentre tutti gli altri vivono ancora in casa e pesano inevitabilmente sul bilancio famigliare. Uno dei fratellini, perciò, è costretto a lavoricchiare in un negozio di mobili, ma solo quando il padrone lo chiama perché c’è molto da fare.
Può anche capitare che si ricostruiscano nuclei famigliari, com’è il caso proprio di questa giovane ragazza, che viene a fabbricare le sue reti insieme alla madre. Madre e figlia sono accompagnate dal più piccolo della famiglia, che passa il tempo con loro mentre queste lavorano alle loro reti. A prendere parte all’attività del progetto ci sono anche due sue cugine.
Le attività si svolgono in spazi appartenenti alla baladyia, il comune. Si tratta di un complesso di garage, alcuni dei quali sono stati messi a disposizione per lo svolgimento di questi programmi. Uno di questi è invece adibito a doposcuola privato pomeridiano, mentre altri due ospitano da poco una centrale per il riciclo dell’acqua. Un altro, infine, sembra essere una sorta di punto di raccolta di materiali di scarto, che diventano strumenti di gioco per i bambini siriani che vivono nell’antistante campo profughi, da cui provengono anche due delle donne del progetto di H.
Ci sono inoltre donne che partecipano al progetto “a distanza”, svolgendo le proprie attività nelle loro case perché impossibilitate, per diverse ragioni personali, a lasciare l’abitazione. Per le altre, invece, l’Irc, il cui progetto aveva una durata di 6 mesi e prevedeva un impegno di tre giorni a settimana, aveva anche messo a disposizione un pullmino. Alcune delle partecipanti, infatti, sia siriane che libanesi, abitano nei mukhayyamat, i campi profughi. Altre volte, invece, le donne abitano in case molto distanti dal centro abitato.
I locali in cui le donne fanno le reti sono dunque semplici, spogli, bui e polverosi. Tuttavia, secondo H. il lavoro di fabbricazione delle reti da pesca in un simile contesto non è faticoso e duro come quando è toccato a lei svolgerlo nelle notti della sua infanzia. Infatti, le beneficiarie dei progetti non lavorano che due o tre giorni alla settimana e solo per tre ore al giorno. Ma, forse, ciò che rende questa attività ancora meno pesante è il clima che scaturisce dallo svolgerla comunitariamente. In più occasioni, infatti, durante le sedute di osservazione, si è potuto assistere quasi a momenti di festa e in ogni caso l’atmosfera è sempre rilassata e gioviale.
Mentre le loro mani si muovono agili, queste donne chiacchierano con H. e con le altre responsabili del progetto, con le impiegate e le volontarie del comune. Di tanto in tanto, quando lo desiderano, prendono una pausa, si alzano per sgranchirsi le gambe, fanno uno spuntino a base di manaqish (una sorta di pizza condita spesso con lo za’tar, timo e olio d’oliva) o bevono un caffè.
“Lei è sempre così, sempre sorridente. Nonostante i problemi che ha, la vedi sempre ridere”. È quanto dice una delle volontarie riferendosi a una delle beneficiarie del progetto. Ma come lei ce ne sono molte altre. Alcune di loro, poi, amano cantare o accompagnare la voce delle compagne con battiti di mani, accenni di danza, seppur da sedute, o con i tradizionali zagharit (ululati di giubilo).
Altri “beneficiari indiretti”?
Alcune donne portano con loro i bambini più piccoli, che le guardano lavorare, giocano nel piazzale e di tanto in tanto richiedono coccole e attenzioni. Alcuni di loro, a volte, si divertono anche a dare una mano e a preparare le spolette da consegnare poi alle lavoratrici. È quello che fa un bellissimo bambino biondo, che abita con la famiglia nel campo antistante la sede del progetto. Lo si può incontrare spesso, vicino alla madre intenta a fabbricare la sua rete o mentre corre con i compagni di gioco e si diverte con quei giocattoli improvvisati che trovano ammucchiati in uno dei garage. Magliette e pantaloni o troppo grandi o troppo piccoli, scarpe o ciabatte rotte, i bambini del campo si trovano a condividere lo spazio con le donne del progetto.
Spazio di apprendimento e di lavoro per queste, spazio di gioco per quelli. Condividendo luoghi e momenti con queste donne, però, i bambini diventano per certi versi altri “beneficiari indiretti” del programma. Certamente esso non assicurerà loro alcun significativo beneficio materiale e psicologico di lunga durata, eppure sembra che possano giovarne proprio dal punto di vista del gioco.
La preparazione delle spolette e l’osservazione dei gesti di queste donne al lavoro, ma anche la partecipazione a quel clima di festa e a quell’aria quasi famigliare che si instaura nei garage, sono sicuramente benefici anche per loro. E così, parlando con queste donne e divertendosi a imitarle, può capitare anche che ci guadagnino qualche decina di metri di filo. Con questo, possono costruire un aquilone, quel giocattolo così radicato nel nostro immaginario e che da sempre rimanda all’idea di libertà e di gioia infinita. Del sogno e del diritto alla libertà e alla gioia infinita. Nena News