Gli slogan scanditi nei giorni scorsi dai manifestanti ricordano quelli delle proteste di cinque anni fa in Tunisia ed Egitto ma il Libano era e resta fortemente condizionato dal settarismo e dalle dinamiche politiche interne e regionali
di Michele Giorgio – Il Manifesto
Gerusalemme, 25 agosto 2015, Nena News – Non è il caso di lasciarsi suggestionare dallo slogan che urlavano l’altra sera i libanesi: “Il popolo vuole la caduta del regime”. Parole note un po’ a tutti, scandite cinque anni fa da milioni di tunisini ed egiziani e che fecero crollare i dittatori Zine El Abidine Ben Ali e Hosni Mubarak.
Le proteste a Beirut e gli scontri violenti degli ultimi giorni scorsi hanno ben poco in comune con la cosiddetta “primavera araba”, sfociata nel bagno di sangue al quale ora assistiamo in Iraq, Siria, Bahrain, Libia e Kurdistan. Niente accade in modo realmente spontaneo nel Libano piegato sotto il peso del settarismo e delle conseguenze interne della guerra nella confinante Siria e che da 14 mesi non riesce ad eleggere il nuovo capo dello stato. O, per essere più precisi, nessuna protesta di massa può conservarsi a lungo a indipendente e popolare senza le influenze della politica nazionale e regionale.
Certo, le manifestazioni di questi giorni sono nate inizialmente da un’esigenza genuina di condanna di un esecutivo — e più in generale di un mondo politico corrotto — incapace di dare una risposta a un bisogno elementare dei cittadini. Ma un malcontento del genere, nato per il problema irrisolto dei rifiuti non raccolti, non arriva all’escalation violenta dell’altra sera, a notti di vera e propria guerriglia urbana.
L’intenzione di non pochi manifestanti di sfondare lo schieramento di polizia e di arrivare fin dentro i palazzi del potere, ha avuto un chiaro obiettivo politico: esprimere l’insoddisfazione dello schieramento filo siriano e filo iraniano “8 marzo” contro il primo ministro Tammam Salam sempre più condizionato dai voleri dell’Arabia saudita. Allo stesso tempo la decisione degli attivisti di “You Stink” di revocare le nuove manifestazioni convocate per ieri, rappresenta un accoglimento della volontà dei partiti del fronte “14 marzo”, anti Damasco e anti Tehran, di non offrire opportunità agli avversari politici di sfruttare la rabbia popolare per costringere alle dimissioni il premier.
L’assalto tentato domenica sera alle sedi istituzionali sono ammonimenti diretti a chi dentro e fuori dal governo, sotto il peso della pressione di Riyadh, preme con più forza di prima per mettere nell’angolo Hezbollah, “reo” di combattere in Siria dalla parte di Bashar Assad. Tutto è politica in Libano. Fu una finta protesta popolare, ad esempio, la “Primavera di Beirut” — nota come la “Rivoluzione dei cedri”, prima e dopo l’assassinio (nel 2005) del premier sunnita Rafiq Hariri – descritta in Occidente come una lotta per la liberazione del Paese dal controllo siriano. In realtà fu portava avanti solo dai libanesi nemici di Damasco.
Altrettanto finta fu la “ribellione del popolo” che Hezbollah e i partiti alleati del fronte “8 marzo” attuarono per mesi, con un campo permanente di migliaia di tende nel centro di Beirut, a partire dal dicembre 2006. Ufficialmente quella protesta chiedeva la caduta del governo filo occidentale di Fouad Siniora rivelatosi “incapace” di guidare il Libano nei giorni delicati dell’offensiva militare israeliana scattata qualche mese prima. In realtà l’obiettivo era affondare Siniora perché, su pressione degli Stati Uniti, intendeva impegnarsi per il disarmo della guerriglia sciita e per ottenere la condanna di Hezbollah e della Siria, accusata dell’assassinio di Rafiq Hariri, da parte del Tribunale Internazionale per il Libano.
La dimensione politica di quest’ultima protesta di cittadini, innescata dall’assenza di un servizio pubblico e poi sfociata in guerriglia urbana contro il governo, si ritrova nei riflessi in Libano del recente accordo di Vienna sul nucleare iraniano. Hezbollah e le formazioni politiche alleate hanno accolto con grande favore l’intesa tra gli Stati Uniti, le altre potenze occidentali e Tehran. Invece altre forze hanno stretto i pugni per la rabbia, perché convinte a torto o a ragione che la legittimazione internazionale dell’Iran favorirà un riconoscimento di fatto anche del movimento sciita e del ruolo della sua guerriglia in Siria. Dietro le quinte l’Arabia saudita preme sui partiti amici in Libano e sul premier Tammam Salam affinchè vengano contenuti l’ “espansionismo iraniano” e il peso degli alleati libanesi di Tehran.
L’altra sera in strada a Beirut tra quelli che urlavano contro il primo ministro, non pochi in realtà lanciavano avvertimenti a ministri e partiti legati alla monarchia saudita. E ieri alcuni giornali arabi, vicini a Riyadh, mettevano in guardia dal “tentativo” di Hezbollah di prendere il controllo Libano attraverso le proteste per la mancata raccolta dei rifiuti.