A tre anni dal movimento You Stink, nel paese dei cedri privati e associazioni mettono una pezza all’immobilità del governo la cui sola soluzione è un inceneritore. Ma la situazione non migliora
di Roberto Renino
Beirut, 5 novembre 2018, Nena News – “Non riceviamo alcun tipo di finanziamento, né dal governo né da enti esterni; è da quattro anni che ci impegniamo autonomamente per diffondere la raccolta differenziata e il riciclo a Beirut”, è quanto afferma Kassem Kazak, co-fondatore di Recycle Beirut, una società che si occupa della raccolta differenziata, del trattamento e della rivendita dei rifiuti. A capo di una squadra di venti impiegati (in maggioranza profughi palestinesi e siriani regolarmente assunti), Kassem, ingegnere informatico per professione e profugo palestinese per destino, fa parte di quei libanesi che hanno deciso di sporcarsi letteralmente le mani, tentando di essere loro stessi il cambiamento di cui ha bisogno il paese.
Il sistema che porta avanti Recycle Beirut è semplice ma purtroppo ancora distante dall’essere la regola: chi è interessato può iscriversi sul sito e segnalare il proprio domicilio come punto di raccolta per i furgoncini dell’azienda che ritireranno l’immondizia in giorni cadenzati. Gli introiti generati dalla rivendita dei materiali processati (plastica, vetro e carta) non sono abbastanza per coprire stipendi e costo delle operazioni, pertanto il servizio non è gratuito: 15mila lire libanesi a raccolta (10$). Ciò fa sì che le loro attività siano concentrate principalmente nei quartieri a nord di Beirut come Hamra ed Achrafiye, più ricchi e più sensibili alle campagne di educazione ambientale.
L’obiettivo della società è quello di riuscire ad ottenere dei fondi che permettano di ridurre al minimo il costo del servizio per gli utenti e ampliare i propri effettivi, in modo da raggiungere efficacemente anche le altre zone della città, arrivando a raccogliere non solo i rifiuti domestici, ma anche quelli abbandonati in strada.
Recycle Beirut non è l’unica realtà che ha deciso di adoperarsi autonomamente per un futuro più pulito e sostenibile della città: “Ganatch”, “Live, Love, Recycle” e“Arcenciel” sono altri enti privati che offrono servizi abbastanza simili. Nel loro piccolo funzionano bene; alcuni di loro ricevono anche fondi internazionali o fanno parte di progetti di sviluppo, come Live, Love, Recycle, che ha come partner il Programma Alimentare Mondiale.
Nonostante le azioni pratiche e la diffusione di campagne sui social media dimostrino un grande coinvolgimento e impegno, queste attività sono escluse da ogni piano governativo e non hanno né vita facile né chiare prospettive per il futuro. A questo proposito conviene citare l’ambiguo episodio dell’altro fondatore di Recycle Beirut, Alexander Mchugh, espulso dal Libano poco più di una settimana fa senza una motivazione apparente, a seguito di accuse rivolte all’ambasciatrice UE Christina Lassen di essere favorevole alla costruzione di inceneritori sul suolo libanese, a quanto si evince dalla petizione lanciata online dalla società di riciclo.
È appunto nel tentativo di riempire le lacune lasciate in materia dallo Stato, che queste piccole realtà devono confrontarsi con l’immobilità del governo, che continua a mantenere una posizione poco incline al cambiamento e all’innovazione. Non è un caso che alcune delle sopracitate società, Recycle Beirut compresa, si siano formate nel 2015, quando la crisi dei rifiuti in Libano ha raggiunto il suo apice.
Le strade di Beirut sono state invase da montagne di spazzatura a seguito della chiusura della discarica di Naameh, a sud della capitale; l’azienda deputata alla raccolta dei rifiuti, Sukleen, ha interrotto le sue operazioni lasciando tonnellate di immondizia a marcire sotto il sole cocente dell’estate libanese. La situazione, resa ancor più insostenibile dall’incapacità del governo di trovare una soluzione al problema, ha innescato numerose proteste organizzate da gruppi e movimenti della società civile. La risposta del governo non è stata delle più lungimiranti: come misura temporanea sono state aperte due nuove discariche: una nella periferia sud (Costa Brava) e una a nord (BourjHammoud) di Beirut.
Allo stesso tempo però, sia nell’area della capitale che nel resto del paese, la pratica di disperdere e bruciare i rifiuti in luoghi casuali è diventata piuttosto velocemente la regola. Le due nuove discariche hanno spostato il problema senza risolverlo, anzi addirittura aggravandolo: quella che era la spiaggia della città è diventata un luogo tossico quasi inavvicinabile. Inoltre, lo sversamento diretto in mare dei rifiuti (pratica denunciata da molti attivisti ambientali e da Human Rights Watch) non danneggia soltanto chi vive nei pressi della discarica, ma è un enorme danno per l’intero Mediterraneo, rendendo quella libanese una crisi non solo esclusivamente regionale. In principio temporanee, le due discariche hanno continuato ad accogliere i rifiuti della capitale oltre la loro capacità fino ad oggi e dalle statistiche si evince chiaramente l’immobilità decisionale. Dei rifiuti libanesi il 52% è organico e il 37% è riciclabile; il 15% dell’organico viene compostato e solamente l’8% dei riciclabili entra effettivamente nel processo del riciclo.
La raccolta dei rifiuti cittadini nella capitale è stata affidata a partire da aprile 2018 ad una nuova ditta, la Ramco. Fa parte di una società libanese legata al business dell’immobiliare ed è riuscita a tamponare i problemi legati alla precedente gestione, introducendo anche piccole zone (ancora poco diffuse) per la raccolta differenziata. Ciononostante, la situazione generale non è migliorata. Come dimostra un rapporto di Human Rights Watch,in Libano sono più di 900 le discariche a cielo aperto nelle quali i rifiuti vengono bruciati liberamente. In 150 di queste i roghi avvengono su base settimanale. La collocazione delle discariche nelle province più povere, contribuisce inoltre all’ulteriore degrado e deterioramento della qualità della vita di aree che sono già al di sotto degli standard medi della società libanese. (HRW Report 1/12/17).
Lo scorso settembre, a tre anni dalla crisi, il governo dimissionario libanese ha approvato una nuova legge in materia, dimostrando nuovamente la poca lungimiranza e l’assenza di una strategia comprensiva che possa finalmente risolvere la questione.
La nuova legge, fortemente contrastata e opposta da movimenti ambientalisti e alcuni (pochi) parlamentari, apre sostanzialmente la via alla costruzione di inceneritori nelle varie municipalità libanesi. Nonostante le numerose consultazioni tra parlamento ed esponenti della società civile, coinvolgimento di istituzioni locali e internazionali, il governo ha optato per la soluzione “più semplice” (e più remunerativa), mettendo in secondo piano l’introduzione di una strategia efficace per la riduzione, il riciclo e lo stoccaggio sostenibile dei rifiuti.
La totale sfiducia di gran parte della popolazione e soprattutto di coloro che nel 2015 sono scesi in strada a protestare, ha portato all’identificazione tra crisi dei rifiuti e crisi politica. Movimenti come “YouStink!” (tu puzzi!) hanno incominciato ad utilizzare il tema del riciclo non solo per lo smaltimento dei rifiuti, ma anche per il ricambio della classe politica, considerata profondamente corrotta e incapace di apportare alcun cambiamento positivo. Pochi infatti all’interno del governo spingono per un cambiamento di rotta effettivo; tra questi spicca Paula Yacoubian, ex giornalista e conduttrice tv, ora deputata impegnata a difendere soprattutto la causa ambientalista. Fiera oppositrice della nuova legge sui rifiuti, nella scena pubblica libanese è considerata uno dei punti di riferimento per la società civile, grazie al suo sostegno per le battaglie sull’uguaglianza di genere, rispetto dei diritti umani e dell’ambiente.
L’assenza di una strategia nazionale e l’approvazione di una legge che di fatto rimette la decisione a livello municipale, non permette un’efficace soluzione del problema che strangola il Libano. I roghi, la contaminazione del suolo e dell’acqua a causa dello stoccaggio all’aperto e della dispersione in mare, rendono la situazione critica: nel 2016 infatti il paese dei cedri si è piazzato tra i primi tre paesi più inquinati secondo il Pollution Index (Numbeo), che prende in considerazione il livello di inquinamento dell’aria e della contaminazione dell’acqua. La fortissima corruzione e gli interessi che legano politica, economia e speculazione non permettono l’adozione di decisioni e regolamentazioni che possano perseguire il bene comune e non soltanto l’interesse dell’élite politica e imprenditoriale.
È dunque questa la cornice in cui opera il privato, in maniera parcellizzata e poco coordinata sia verticalmente, con il governo, che orizzontalmente, tra le varie società e organizzazioni che provano ad implementare e gestire la raccolta differenziata e il riciclo. Dopo il rapporto Onu sul clima dello scorso ottobre e la recente decisione del Parlamento Europeo di vietare la plastica monouso, il Libano si ritrova ancora più indietro nello scenario globale, privo di una politica credibile in materia ambientale e di gestione dei rifiuti.
Incapace di dotarsi di una strategia nazionale e allo stesso tempo non disposto a finanziare e a sostenere iniziative private se non per la costruzione di inceneritori, il paese resta così impantanato,e peggiorano di giorno in giorno le condizioni di vita e di salute non solo dei suoi cittadini, ma dell’intero ecosistema regionale. Nena News