Tel Aviv congela i progetti edilizi palestinesi in Cisgiordania. Questa è solo l’ultima punizione decretata dal governo Netanyahu dopo l’annuncio della “riconciliazione nazionale” palestinese. Intanto, secondo il “The Daily Beast”, il Segretario di Stato Usa John Kerry avrebbe dichiarato venerdì che senza la soluzione di due Stati, “Israele rischia di diventare uno stato di apartheid”.
di Rosa Schiano
Roma, 29 aprile 2014, Nena News – Mentre le notizie e le dichiarazioni sui negoziati di pace si susseguono, non cambiano sul terreno le politiche israeliane. Il governo israeliano ha infatti applicato nuove sanzioni che congelano progetti edilizi palestinesi in Cisgiordania, tra cui progetti internazionali considerati “illegali” da Tel Aviv. Un ufficiale del Ministero della Difesa israeliano ha riferito che tale decisione è stata presa dopo che l’ Autorità Palestinese ha aderito ad una decina di convenzioni internazionali e trattati, compresa la convenzione di Ginevra.
I progetti congelati, riportano fonti israeliane, prevedevano la costruzione di 600 unità abitative e la legalizzazione di case “senza permessi”. L’ufficiale israeliano ha riferito che Israele avrebbe congelato cinque progetti considerati “illegali” finanziati da paesi stranieri, compresi il progetto di un playground finanziato dal governo italiano, il restauro di pozzi con fondi svedesi e la distribuzione di tende fornite dalle Nazioni Unite.
Oltre al congelamento, il governo israeliano starebbe inviando proteste alle ambasciate e consolati coinvolti. Tali progetti rientrerebbero nell’ Area C della Cisgiordania, termine che, come deciso sotto gli Accordi di Oslo (1993-1995), designa il territorio della Cisgiordania sotto esclusivo controllo israeliano. Ottenere dei permessi per costruire in quest’area è estremamente difficile, mentre espropri e demolizioni forzate sono costanti. Ed allora risulta difficile considerare credibili i negoziati di pace mentre si assiste quotidianamente a queste pratiche distruttive proprio in quei territori che internazionalmente non sono riconosciuti essere sotto l’autorità israeliana, e dove chiara è l’occupazione militare, mentre Tel Aviv pare assolutamente non considerare la richiesta di un ritorno ai confini del 1967.
Rimanendo in tema edilizio, va anche ricordato che ad inizio aprile Israele aveva demolito tre di diciotto strutture residenziali finanziate dall’Unione Europea in Cisgiordania. Gli edifici erano stati costruiti per permettere a famiglie palestinesi rimaste senza casa dopo le demolizioni israeliane un rifugio durante l’inverno. Delegati dell’Ue si erano limitati a chiedere delle compensazioni finanziarie.
Ma il congelamento di progetti edilizi è soltanto una delle punizioni inflitte da Tel Aviv. Infatti, dopo la decisione dell’Autorità Nazionale Palestinese di avviare l’iter di adesione dello Stato di Palestina ad alcune convenzioni delle Nazioni Unite, il governo israeliano aveva anche deciso di congelare il trasferimento dei fondi palestinesi derivanti dalla raccolta delle tasse e dei dazi doganali che Israele raccoglie per conto dei palestinesi sin dagli Accordi di Oslo.
In concreto,il blocco dei fondi compromette il pagamento degli stipendi dei dipendenti pubblici palestinesi, delle pensioni e la distribuzione di servizi per la popolazione. L’Autorità Palestinese sta in queste ore valutando tutte le possibili misure per evitare il collasso, tra cui misure di austerità ed aumento delle tasse.
Anche la recente riconciliazione tra Hamas e Fatah aveva infastidito il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che ha accusato il presidende palestinese di scegliere Hamas e non la “pace”. In realtà, il 25 aprile, Abbas avrebbe riferito a John Kerry, segretario di Stato USA , che il nuovo governo ad interim avrebbe mantenuto la stessa linea politica, il riconoscimento di Israele e la rinuncia alla resistenza armata.
L’accordo raggiunto tra le parti palestinesi prevede la formazione di un governo ad interim in 5 settimane che includa personaggi politici indipendenti ed elezioni fra sei mesi. In un documento inviato il 25 aprile agli Stati Uniti, la OLP sottolinea che l’accordo non sarebbe altro che l’ attuazione di due accordi precedenti raggiunti a Doha, in Qatar, nel febbraio 2012, ed al Cairo nel maggio 2012. Tale accordo, si afferma nel documento, apre la strada alle elezioni legislative e presidenziali attraverso la formazione di un governo ad interim.
Questo accordo di riconciliazione darà ai palestinesi l’opportunità di esercitare il diritto ad eleggere i propri rappresentati secondo principi democratici. Il documento specifica che il governo ad interim includerà politici indipendenti che saranno selezionati in base alle loro competenze. Nel documento, la OLP conferma di voler continuare i negoziati di pace con Israele, sostenendo la non violenza e mantendeno i precedenti accordi.
Nel frattempo, l’accordo interno palestinese ha iniziato a tradursi in azioni volte a creare l’atmosfera della riconciliazione, come l’apertura nella Striscia di Gaza ai giornali della Cisgiordania, mentre ci si aspetta che lo stesso avvenga per la stampa di Gaza.
John Kerry, secondo il “Daily Beast News” avrebbe dichiarato venerdì alla commissione Trilaterale che senza la soluzione di due Stati, “Israele rischia di diventare uno stato di apartheid”. Secondo Kerry, il fallimento dei negoziati potrebbe risultare in un “ritorno alla violenza palestinese contro gli israeliani”.
Kerry sembra rimproverare entrambe le parti per lo sgretolamento dei negoziati, ed avrebbe affermato che “la soluzione dei due Stati rappresenta l’unica alternativa, perché un solo Stato finirà per essere uno stato di apartheid con cittadini di seconda classe o che distruggerà la possibilità di Israele di essere uno stato ebraico”. Sarebbe interessante chiedere a John Kerry se Israele accetterà mai di smantellare tutti gli insediamenti coloniali in Cisgiordania e ritirare il suo esercito.
Gli Stati Uniti infatti si sono mostrati preoccupati per la riconciliazione interna tra Hamas e Fatah, pensando subito che questa avrebbe influito sui negoziati di pace, ma non si sono mai dimostrati preoccupati per le continue violazioni israeliane che hanno portato a interromperli. Nella Striscia di Gaza tali violazioni includono soprattutto aggressioni sui civili palestinesi nelle aree lungo il confine .
A questo proposito, il 25 aprile la Ong statunitense Human Rights Whatch ha pubblicato un documento, “Israel: Stop Shooting at Gaza Civilians”, in cui si invita Israele a smettere di sparare ai civili palestinesi nella Striscia di Gaza, ed in cui si sottolinea che quattro palestinesi sono stati uccisi vicino il confine dall’inizio del 2014 (periodo 2 gennaio-1 marzo), compresi uno studente liceale ed una donna disabile, e più di 60 civili sono stati feriti.
HRW ha sottolineato che i palestinesi usano i terreni vicino la barriera con Israele per coltivare e per raccogliere macerie, rottame metallico ed altri materiali riutilizzabili e che si possono riciclare. “Mese dopo mese, le forze israeliane hanno ferito ed ucciso palestinesi disarmati che nulla hanno fatto se non attraversare una invisibile linea di separazione che Israele ha disegnato dentro il confine di Gaza”, ha detto Sarah Leah Whitson, direttrice di HRW in Medioriente. In violazione al diritto internazionale, che proibisce gli attacchi sui civili, i soldati israeliani hanno ripetutamente sparato a civili palestinesi vicino la barriera al confine, si legge nel documento (http://www.hrw.org/news/2014/04/24/israel-stop-shooting-gaza-civilians )
Insomma, mentre all’esterno delle mura e delle barriere si continua a parlare di soluzioni di pace, la popolazione palestinese stretta tra le colonie, aggredita o sotto assedio, continua a non vederne traccia. Nena News