Nella vicenda di Majeda c’è anche la storia di questo campo profughi situato nella periferia sud di Beirut e che accoglie ufficialmente 28.000 palestinesi. Ma negli anni curdi, siriani, iracheni e libanesi poveri vi hanno trovato accoglienza, facendone uno dei più sovraffollati.
di Federica Iezzi
Beirut, 13 novembre 2014, Nena News – Majeda ha le mani segnate dai duri inverni nei campi profughi. Scure, screpolate, rugose. Le ferite si aprono quando le piega. Sanguinano e quel sangue racchiude rabbia e impotenza. E’ stata trascinata violentemente e irragionevolmente nella periferia sud di Beirut, nel campo di Bourj el-Barajneh, quando era incinta del suo quarto figlio, Mohamad. Prima viveva con i suoi bambini e con un marito spesso assente per lavoro, a Beit Lahia, nella Striscia di Gaza.
La sua Gaza mi dice che è una terra insanguinata ma bella, solare, viva. E’ la stessa terra dove suo padre ha lavorato, dove ha costruito una casa, dove ha sposato la donna che amava e dove ha cresciuto i suoi nove figli.
L’hanno buttata fuori di casa. Era al settimo mese di gravidanza, con tre figli piccoli che piangevano perchè avevano fame. Ha sanguinato e nessun medico l’ha visitata. Ha partorito a Beirut, nel gelo di un campo profughi, non ancora pronto per accogliere centinaia di persone.
E’ lei che si è accorta che il suo bambino non stava bene. Quando piageva la sua pelle dal colore dell’olivo diventava scura. Mohamed non rispondeva più alle canzoni che cantava Majeda. Non beveva il latte ed era sempre freddo. Era piccolo e non cresceva. Rimaneva accovacciato per terra per tutto il giorno.
Majeda ricorda che centinaia di migliaia di rifugiati palestinesi della Nakba (1948) risiedono in Libano per di più nei campi, senza diritti politici, economici e sociali. Le strutture, costruite come rifugi temporanei, si sono deteriorate, quasi interamente, nel corso dei decenni: tubi che perdono acqua, nessun sistema di trattamento delle acque reflue, nessuna connessione elettrica. Immondizia e scarichi saturano l’aria.
Ci sono poche aree aperte, nei campi profughi, per parchi giochi, così i bambini giocano per le strade, nei vicoli bui, tra fogne a cielo aperto, canali di scolo e edifici danneggiati. Per certi versi è una piccola città. Nelle tende e nelle case di Bourj el-Barajneh non entra il sole.
Majeda ha nutrito la sua famiglia con meno di 6 dollari al giorno. Solo sopravvivenza. Ha lavorato umilmente come cameriera e cuoca, in un mercato del lavoro fortemente discriminato, racconta. Il pane e il latte era tutto quello che poteva permettersi. Durante le piogge perpetue la sua tenda, insieme a quella di altre 28.000 persone, si riempiva di acqua e fango. Il freddo le entrava nelle ossa e nelle vene.
E come a Bourj el-Barajneh, altri palestinesi, magari vecchi vicini di casa di Majeda, sopportavano la stessa fatalità nei campi di Beddawi, Nahr el-Bared, Ein el-Helweh, Dbayeh, Rashidieh, Mar Elias, Wavel, Shatila, Burj Shemali, El Buss, Mieh Mieh.
Majeda ha scoperto che Mohamed aveva una cardiopatia congenita, gli ha dato sempre le medicine e per comprarle ha rinunciato spesso al suo pasto.
Quando Mohamed compì sei anni ha lottato per mandarlo a scuola. Mi dice che i palestinesi non possono accedere al sistema scolastico pubblico in Libano. E così tutte le mattine lo accompagnava alla scuola dell’UNRWA. La sua classe era composta da 64 bambini.
I bambini rifugiati sono costretti a trovare presto un lavoro, abbandonando le scuole, per portare qualche soldo in più in famiglia. Ma per Mohamed era tutto diverso. Majeda dopo 13 anni, privandosi di ogni privilegio, ha portato suo figlio in ospedale per far guarire il suo cuore. Ci racconta come funziona la sanità nei campi rifugiati palestinesi in Libano: un medico vede in media 117 pazienti al giorno. Non tutti i servizi medici sono forniti in ogni campo. Così i rifugiati possono aver bisogno di visitare un altro campo per analisi, ecografie e radiografie. Ed è quello che è successo a loro, rimbalzati da un campo all’altro, da un ambulatorio all’altro, tra mille scartoffie e parole incomprensibili.
Fino al 1990, quando è finita la guerra civile libanese, il campo di Bourj el-Barajneh è stato centro di duri combattimenti e gli edifici ancora oggi portano cicatrici di pallottole e bombardamenti.
Il campo è imballato in una baraccopoli di circa un chilometro quadrato, con cavi elettrici aggrovigliati che scendono disordinatamente dai tetti dei vecchi fabbricati. Alcuni vicoli restano perennemente al buio. Oggi Majeda e Mohamed vivono in uno di quei vicoli. In un labirinto di stretti viottoli hanno reinventato la loro vita, lontano dal mare della Striscia di Gaza. Nena News