Storia, sviluppo e scomparsa della sinistra israeliana. Le ragioni di un crollo che da un lato ha lasciato campo aperto alla destra religiosa e ultranazionalista e dell’altro ha favorito la nascita di una sinistra esigua ma più radicale nella critica delle politiche di Israele verso i palestinesi.
di Francesca Merz
Roma, 18 giugno 2020, Nena News -E’ il mese di giugno di un anno che verrà ricordato per molte cose tragiche, ma non, temiamo, per ciò che sta avvenendo in Palestina. Il processo di annessione a Israele ha subìto una forte accelerata, e così, a breve, la Palestina occupata, quella che noi chiamiamo Cisgiordania, verrà ulteriormente frantumata, e annessa allo stato di Israele. In questo momento, in cui, per poco, si potrà tornare a parlare di Palestina, per poi dimenticarcene nuovamente, suona sorda e sconcertante non solo l’indifferenza internazionale ma l’inesistenza di un fronte di opposizione in Israele, di un fronte, come avremmo detto una volta, di sinistra. Ci siamo concentrati proprio sulla sinistra israeliana per capire, a partire dalla sua nascita, cosa ne sia stato e cosa ne rimanga.
Le foto delle centinaia di persone che protestano contro l’annessione, rappresentano lo specchio di un paese, in cui un’opposizione all’annessione a Israele di larghe porzioni di Cisgiordania conta una percentuale così esigua, che semplicemente non esiste, poiché non riesce ad avere voce. Questo è ciò che resta del fronte di pace israeliano, paralizzato da un sistema politico che è balzato selvaggiamente a destra. “Leftist” e “peacenik” sono insulti oramai ampiamente usati nei confronti di quella minima parte della società ormai ai margini e considerata come traditrice della causa ebraica.
In una recente inchiesta del Guardian l’Israel Democracy Institute, ha affermato che il problema della pace è “scomparso quasi completamente dal discorso pubblico israeliano”. Alcuni membri della sinistra, proprio sulle pagine del Guardian, hanno spiegato come è successo:
Pepe Goldman ha un cartello “Ferma l’occupazione”, è un manifestante, un ebreo argentino emigrato in Israele nel 1976, che da allora ha protestato: “Purtroppo siamo una piccola minoranza. Gli israeliani sono molto, molto … “dice, prima di ricominciare la frase:” Direi che non gliene frega niente di quello che sta succedendo “. Il 67enne non protesta più per convincere i suoi concittadini. Viene per ragioni più concrete: come israeliano, con i diritti extra previsti dalla legge, può fungere da scudo umano per i palestinesi che stanno affrontando sfratti forzati o attacchi da parte dei coloni. “Viviamo solo una volta. Non potrei perdonarmi se lascio che tutto questo accada. ”
Yehuda Shaul ha 37 anni, ma la sua barba sbiancata, le sue spalle larghe e il suo viso dipingono l’immagine di un uomo molto più anziano. L’organizzazione da lui fondata, Breaking the Silence, è composta da veterani che vogliono svelare la realtà della stretta di Israele sulla vita palestinese. La vita dell’Associazione, dopo il 2015, è diventata insopportabile; con il crescente coinvolgimento dei coloni nella vita pubblica del Paese, anche le voci critiche sono state zittite con forza, e sono aumentati esponenzialmente gli attacchi a Breaking the Silence.
Shaul racconta al Guardian un tentativo incendiario nei loro uffici, di persone che lavorano sotto copertura per infiltrarsi nell’organizzazione, di una legge che è stata soprannominata la legge “Breaking the Silence” per vietare loro di parlare nelle scuole.”Quando il ministro della difesa ti chiama spia, il primo ministro dice che hai attraversato una linea rossa e il ministro del turismo dice che sei un traditore, le persone rispondono alla chiamata”
Amira Hass beve un whisky in un bar di Ramallah. Dietro di lei il famoso poster “Visit Palestine” del 1936 è appeso al muro. Dal 1993 vive nei territori, prima a Gaza e ora in Cisgiordania. E’ una scrittrice israeliana, ma non conosce nessun altro giornalista ebreo israeliano che viva qui. Amira parla dello spirito critico in parte ancora presente fino a qualche decennio fa nella società israeliana: “C’era un “disagio” nella società, “perché c’era ancora la comprensione di una contraddizione tra l’immagine che avevamo di noi, come illuminata, progressista, liberale, democratica, e l’occupazione. Ma da quando il movimento dei coloni è riuscito a diventare trainante nella società israeliana, l’idea di annettere le enormi aree di terra che hanno preso sta rapidamente diventando un’idea mainstream “Ora i coloni sono di alta estrazione sociale, sono esperti, sono nell’esercito, sono ingegneri specializzati nelle più alte tecnologie.”
Il Parlamento israeliano è totalmente svuotato da ogni voce critica. L’ex ministro degli esteri israeliano Tzipi Livni ha lasciato la politica dopo che i sondaggi hanno indicato che il suo minuscolo partito non sarebbe più tornato in parlamento. Nel suo discorso di addio, Livni ha affermato che la pace è diventata una “parolaccia”.
Il tema della sinistra israeliana, e di un partito laburista sempre più inesistente, risulta stringente nell’ottica di una potenza che, aldilà della questione palestinese, si sta spostando sempre di più verso una intransigenza interna assai pericolosa, nei confronti di chiunque provi ad avversare la propaganda mainstream. Recentemente, proprio Haaretz, giornale “di sinistra”, ha messo in luce le stesse contraddizioni all’interno di quel poco che rimane della sinistra israeliana, ammesso sia mai esistita, ma di questo parleremo dopo.
Proprio sulle colonne di Haaretz, è uscita recentemente un’intervista a Jonathan Pollak, un attivista israeliano attualmente in detenzione di polizia per aver rifiutato di rispondere a una causa intentata contro di lui dall’ONG di estrema destra Ad Kan. “Dovremmo attraversare le linee e disobbedire alla legge, nonostante il prezzo che potremmo pagare. Dovremmo unirci ai bambini che lanciano pietre e a coloro che lanciano le Molotov. Dovremmo seguire le loro orme. ” Queste parole sono state la conclusione di un editoriale scritto per Haaretz la scorsa settimana proprio da Pollack
Poco dopo la pubblicazione, la riga conclusiva è scomparsa dal sito web di Haaretz, per poi riaffiorare sotto forma di schermate e risposte scioccate su Twitter. Aluf Benn, caporedattore di Haaretz, ha affermato che la versione che includeva la linea è stata erroneamente caricata sul sito web e successivamente rimossa. La frase di Pollack evidenzia la sua scelta di scuotere una sinistra ossessionata oramai dalla necessità che qualsiasi tipo di opposizione e battaglia per i propri diritti, da parte della popolazione palestinese, debba essere per antonomasia non violenta, e pare dimenticare che si chiede si rispondere in maniera non violenta a continui, giornalieri e ripetuti atti di violenza quotidiana da parte dei coloni e dell’esercito israeliano.
La centralità della nonviolenza come principio del movimento israeliano contro l’occupazione deriva da diversi fattori: uno, non sufficientemente discusso, è l’importanza delle ONG all’interno del movimento o, più precisamente, la loro dipendenza dai donatori stranieri. Questa dipendenza economica richiede un impegno costante nell’ottemperare a valori specifici, richiesti dai donatori, ovvero il rispetto della nonviolenza e della stessa legge israeliana. La stessa legge che consente in primo luogo il dominio militare israeliano e l’oppressione dei suoi dissidenti.
Si produce dunque un binario discutibile di resistenza legittima e illegittima che non è correlato a ciò a cui quella violenza risponde. Nonostante questa fantasia della sinistra israeliana di dover solo sostenere gli scioperanti della fame palestinesi e i manifestanti pacifici, l’oppressione militare di Israele si attua con la forza e la violenza, la coercizione e l’abuso costante, ma questo pare non essere un tema capace di giustificare la rivolta alle ingiustizie.
Proprio questa narrazione non fa che dare credibilità alla campagna mediatica che la destra israeliana conduce da decenni, per etichettare qualsiasi tipo di resistenza palestinese come intrinsecamente illegittima, espandendo il concetto di “violenza” palestinese al punto che persino la resistenza non violenta è vista come una forma di terrorismo che deve essere annientata.
In questo spaccamento e radicalizzazione della società, è interessante analizzare il dato crescente nelle ultime elezioni della Lista araba unita, a discapito ad esempio di Meretz (sinistra sionista tradizionale), e del partito laburista tecnicamente sparito. E’ Hagar Shezaf, sulle colonne di Haaretz, a mettere in luce il nuovo processo decisionale insito nella scelta di molti israeliani di dare la propria preferenza a questa lista: “Maikin era stato anche un elettore Meretz. Alla domanda sul perché avesse abbandonato la festa, ha detto: “Meretz non è più una festa” Maiken afferma nell’intervista di avere avuto difficoltà a votare per la Lista Araba Unita a causa del partito islamico che costituisce parte del suo elenco. “Sono come i nostri ultra-ortodossi, ma posso ingoiarlo a causa della mia preoccupazione per la democrazia e il razzismo che si sta diffondendo in Israele”.
Tra le interviste dell’inchiesta, la scelta di Aviv Hochbaum, donna lesbica di Tel Aviv, chedichiara di aver votato per quella lista, nulla di più lontano apparentemente proprio per la presenza del partito islamico, eppure, un voto di forte discontinuità e a favore dei diritti dei più deboli, e delle classi meno rappresentate. Nena News
(segue)