Alle aperture palestinesi, per molti vere e proprie svendite, Israele ha contrapposto sempre nuove richieste e strumentali rifiuti. E Abu Mazen invoca la NATO.
di Maurizio Musolino
Roma, 5 febbraio 2014, Nena News – Da mesi è in corso una pericolosa partita a poker a tre fra Abu Mazen, Obama e Netanyahu. Tutte le parti sanno bene che il tentativo di arrivare ad un accordo è quasi sicuramente destinato a naufragare, ma né Israele né l’Anp vogliono caricarsi sulle spalle il fardello della responsabilità del fallimento. Fin dall’inizio della trattativa – ricordiamolo – il presidente Abu Mazen fu obiettivo di attacchi da varie componenti palestinesi, e del variegato universo progressista mondiale, con l’accusa di sedersi ad un “tavolo” voluto dagli Usa per svendere la causa palestinese. A quelle accuse la dirigenza dell’Anp, che poi coincide per gran parte con quella di Fatah (il movimento storico palestinese fondato da Arafat), ha risposto di aver accettato di sedersi alle trattative per voler svelare all’opinione pubblica mondiale il bluf di Israele che per sua costituzione rifiuta qualsiasi, pur brutto, accordo con i palestinesi.
Fino ad oggi questa tattica ha – almeno in parte – funzionato: alle aperture palestinesi, per molti vere e proprie svendite, Israele ha contrapposto sempre nuove richieste e strumentali rifiuti, tanto da indurre il negoziatore statunitense John Kerry, da sempre legato alle lobby ebraiche Usa, ha dichiarato al mondo la possibilità che la sua amministrazione possa colpire con embarghi chi sarà ritenuto colpevole del fallimento delle trattative. Un vero e proprio avvertimento verso quelle componenti della Knesset che rifiutano una seppur minima concessione verso i palestinesi.
Ma adesso la partita a poker arriva alla mano finale e per Abu Mazen aumentano i pericoli. Il rischio maggiore consiste nell’ipotesi che dopo aver costretto il presidente dell’Anp a concessioni spesso inaccettabili il duo Kerry-Netanyahu possano giocare la carta di una proposta finale frutto della “mediazione” fra le “inaccettabili concessioni” di Abu Mazen e le “inaccettabili richieste” di Netanyahu. Il risultato sarebbe un accordo disastroso per i palestinesi.
In questo contesto generale vanno lette le dichiarazioni di Abu Mazen, l’ultima delle quali è l’intervista rilasciata nei giorni scorsi al quotidiano New York Times. In quell’intervista il presidente palestinese si dice disponibile ad accettare una missione della Nato – pattuglie e check point – in tutta la Cisgiordania, a Gaza e a Gerusalemme Est in cambio di un ritiro graduale delle forze di occupazione israeliane entro cinque anni. Il tutto finalizzato alla nascita di uno stato palestinese entro i confini del 1967. Nella partita a poker in atto, Abu Mazen ha pensato di rilanciare la posta ipotizzando che la permanenza del contingente Nato potesse essere a tempo indeterminato: “per rassicurare gli israeliani, per proteggere noi”. La proposta che mette in campo la Nato arriva dieci giorni dopo le polemiche scatenate dalla dichiarazione in cui si diceva – anche se in forma volutamente ambigua – disposto ad accettare una presenza militare israeliana nella Valle del Giordano, a ridosso del confine con la Giordania, nei tre anni successivi alla firma dell’accordo di pace.
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu, che in passato non aveva mai fatto mancare il suo rifiuto categorico ad una presenza straniera all’interno dei confini palestinesi, non si è ancora espresso sulla proposta di Abu Mazen. Pertanto ad oggi le trattative sono ferme a quanto dichiarato nei giorni scorsi dal leader israeliano, ovvero che Israele accetterà solo un accordo che preveda la presenza a lungo termine delle truppe israeliane nella Valle del Giordano e che la precondizione necessaria a tale accordo è che l’Anp riconosca Israele come Stato Ebraico. Una clausola, quest’ultima, respinta però con decisione dalla parte palestinese – negherebbe infatti non solo il diritto al ritorno dei profughi, ma condannerebbe la minoranza arabo-palestinese in Israele ad una sorta di diaspora autoimposta. A questo proposito è utile sottolineare come alle dichiarazioni “informali”, per quanto possano esserlo frasi pronunciate da un presidente in carica, si sommano prese di posizione “formali”. La più significativa è stata espressa lunedì scorso dalla Commissione Centrale del di Fatah. Il suo portavoce, Nabil Abu Radinah, ha chiarito i punti fondamentali non negoziabili: “La posizione di Fatah sostiene i diritti nazionali palestinesi permanenti e legittimi. Tra questi, in primo luogo, vi è il diritto al ritorno e all’autodeterminazione, la fondazione di uno stato indipendente con capitale Gerusalemme sui confini del 4 giugno 1967 ed il rifiuto di qualunque accordo che non includa questi diritti”.
Una presa di posizione che lascia pochi dubbi e poco spazio a speculazioni. Soprattutto sul tema del diritto al ritorno, sottolineato e volutamente messo al primo posto, sul quale lo stesso caponegoziatore palestinese Erekat ha avuto un violento botta e risposta con il ministro israeliano Livni. “Israele deve scusarsi – ha ribadito Erekat – per quello che ha fatto ai rifugiati palestinesi, perché non sono stati sfollati da un vulcano o da uno tsunami, ma dalla fondazione d’Israele. Il loro problema dovrebbe essere risolto sulla base dell’iniziativa di Pace araba e secondo quanto ha stabilito la comunità internazionale”. Senza mai dimenticare – aggiunge chi scrive – la IV convenzione di Ginevra che garantisce come diritto personale e non contrattabile la possibilità per i rifugiati a poter ritornare sulla propria terra di origine.
E così la partita a poker prosegue e mentre il presidente dell’Anp ripete ai giornali che “la chiave della pace è nelle mani di Netanyahu”, il tempo stringe e la scadenza per la firma di un accordo quadro è oramai dietro l’angolo, il prossimo mese di aprile. Si ritorna così al punto di partenza, alle trattative che tutti riconoscono non avere molte possibilità di arrivare ad un accordo: lo ripete proprio il capo negoziatore dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, Olp, Sa’eb Erekat; secondo il mediatore palestinese le divergenze tra Washington e Ramallah sulle questioni chiavi del conflitto arabo-israeliano non sono state appianate. Uno stallo però che non ferma i crimini dell’occupazione: dall’inizio delle trattative, nel luglio scorso, Israele ha deciso di costruire più di 10.000 unità abitative per coloni, ha demolito 219 case di palestinesi e ha ucciso più di 40 palestinesi.
Per finire alcune brevi considerazioni. E’ chiaro che in queste settimane si sta giocando una partita difficilissima e dal suo esito potrà cambiare l’immediato futuro degli equilibri mediorientali. Una partita che va ben oltre la questione palestinese e che comprende la crisi siriana e irachena e il nuovo ruolo che potrà assumere nella regione l’Iran. Una partita che non prevede esclusioni di colpi e che giustamente ogni popolo e ogni governo deciderà come giocarsi. Un principio, questo, che vale tanto più quando questo popolo – il palestinese – da oltre 65 anni (un tempo lunghissimo) è costretto a vivere sotto una occupazione tanto criminale quanto forte di appoggi internazionali che vanno dagli Stati Uniti all’Unione europea. Non sta a noi quindi giudicare, né lanciare anatemi. Altra cosa è cercare chiavi di lettura che mettano in evidenza il carattere neocoloniale e imperialista della politica dell’amministrazione di Obama (per molti aspetti in piena continuità con l’era Bush) e il ruolo di Israele e del sionismo come pedina fondamentale di questo ingranaggio. Nello stesso modo non possiamo tacere sul “non ruolo”, una scelta altrettanto scellerata e criminale, che l’Unione Europea ha deciso di attuare nell’area. Una scelta che nella pratica si traduce in una piena complicità e connivenza con le scelte Usa. Nena News