Proseguono le violazioni israeliane: ieri un 13enne è stato ucciso dal fuoco israeliano. La leadership palestinese annuncia: in Consiglio di Sicurezza entro ottobre per chiedere la fine dell’occupazione israeliana. L’ipocrisia Usa: Kerry chiede ad Abbas di posporre la risoluzione in attesa di nuovi negoziati.
di Chiara Cruciati
Gerusalemme, 17 ottobre 2014, Nena News – Alle violazioni israeliane la leadership palestinese risponde con la via diplomatica. Passando per le Nazioni Unite. Una via tentata già nel 2012 quando il presidente Abbas ottenne lo status di Stato non membro dell’Onu, ma poi interrotta dai timori palestinesi di rompere il fragile negoziato con Israele: nonostante i reiterati annunci l’Anp non ha ancora aderito alla Corte Penale Internazionale – di fronte alla quale trascinare Israele per crimini di guerra.
Eppure i crimini non mancano. Ieri un adolescente palestinese ha perso la vita a Beit Laqiya, a nord ovest di Ramallah, ucciso dalle forze militari israeliane. Si chiamava Bahaa Samir Badir e aveva 13 anni. È stato centrato al petto da distanza ravvicinata da una pallottola israeliana durante un raid dell’esercito nel suo villaggio. È morto in ospedale, a Ramallah, per emorragia.
Subito dopo la notizia, nel villaggio sono scoppiati scontri. Una portavoce dell’esercito israeliano ha detto che le forze militari “si sono trovate di fronte una sommossa illegale a Beit Laqiya mentre uscivano dal villaggio, i manifestanti hanno lanciato molotov ai soldati”. Una spiegazione che non giustifica in alcun modo l’uso del fuoco, a distanza ravvicinata e ad altezza d’uomo, contro un 13enne.
Sale ancora il numero di morti in Cisgiordania dall’inizio dell’anno: 42, un bilancio durissimo, che si aggiunge ai 2.150 morti dell’offensiva israeliana contro Gaza di quest’estate. E nella Striscia? Anche lì le violazioni dell’accordo di cessate il fuoco non mancano: ieri sera la marina israeliana ha aperto il fuoco contro una barca di pescatori gazawi, nei pressi di Deir al-Balah. Il proprietario, Jamal Abu Watfa, è caduto in mare ed è stato salvato dall’annegamento.
Dal 26 agosto, giorno della tregua tra resistenza palestinese e Stato di Israele, la marina israeliana ha colpito più volte le barche dei pescatori affermando che avevano superato il limite di pesca previsto, che secondo l’accordo è di sei miglia nautiche dalla costa. In realtà, gli Accordi di Oslo del 1993 prevedono un limite di 20 miglia nautiche, ma Tel Aviv negli anni lo ha ridefinito unilateralmente, facendo collassare il settore della pesca, uno dei principali introiti – prima dell’assedio – per la popolazione della Striscia. Oggi il 90% dei 4mila pescatori che sono rimasti a svolgere la loro attività è povero, secondo i dati della Croce Rossa, con un aumento del tasso di povertà del 40% dal 2008.
Alle violazioni israeliane la leadership palestinese tenta di rispondere passando per il Palazzo di Vetro: l’Olp ha fatto sapere che presenterà al Consiglio di Sicurezza una bozza di risoluzione per chiedere la fine dell’occupazione israeliana entro la fine di questo mese. Le pressioni non mancano: gli Stati Uniti minacciano ufficiosamente di tagliare i fondi all’Anp (700 milioni di dollari l’anno). Ma l’Olp pare voler resistere, almeno stavolta: ieri il segretario generale Yasser Abdel Rabbo ha detto che la decisione è stata presa mercoledì e non sarà messa in discussione. “Il consiglio politico dell’Olp ha deciso nel corso del meeting della notte scorsa di andare in Consiglio di Sicurezza per consegnare una risoluzione per porre fine all’occupazione israeliana dei Territori occupati entro la fine di ottobre. Il voto si terrà due settimane almeno dalla presentazione della richiesta”.
Nella risoluzione si chiede “il ritiro totale di Israele, il potere occupante, da tutti i territori palestinesi occupati nel 1967, inclusa Gerusalemme Est, il più rapidamente possibile e da concludersi non oltre il novembre 2016”. Di certo in Consiglio di Sicurezza non mancherà l’opposizione statunitense che insiste sui negoziati come unica via alla soluzione del conflitto. Una visione cieca e ipocrita: il processo di pace ha permesso a Israele, negli ultimi vent’anni, di ottenere piena impunità per l’espansione coloniale e l’occupazione delle terre palestinesi.
Eppure ieri il segretario di Stato Usa Kerry (che ha chiesto ufficiosamente ad Abbas di non presentarsi all’Onu ma di dare prima una chance al processo di pace) è tornato a parlare di negoziati, interrottisi la scorsa primavera senza alcun risultato, né concreto né teorico: “Dobbiamo trovare una via per creare due stati che possano vivere fianco a fianco, due popoli con aspirazioni da rispettare. Credo ancora che sia possibile”. Di critiche a Israele non se ne parla: né per i continui annunci di nuove colonie, né per gli omicidi di giovani palestinesi, né tantomeno per il massacro compiuto a Gaza.
Si muove qualcosa in Europa, dove su pressione delle società civili alcuni Stati sfidano Tel Aviv. Dopo il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte della Svezia e il voto favorevole del parlamento britannico alla mozione laburista che chiede al governo Cameron di fare lo stesso, oggi è il parlamento spagnolo ad annunciare un voto sulla stessa materia: il riconoscimento dello Stato palestinese. Nena News