OPINIONE. In questo momento storico, vanno tenute a mente le tendenze a lungo termine che agiscono a favore del movimento di liberazione nazionale: tra gli ebrei americani, nella società israeliana e tra i palestinesi stessi
di Nadia Hijab – Al-Shabaka
Traduzione di Elena Bellini
Roma, 20 dicembre 2017, Nena News – In tutto il mondo si stanno organizzando manifestazioni contro la decisione del presidente Usa Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele. Nel farlo, Trump ha tralasciato dettagli come frontiere e confini – in realtà lo stesso diritto internazionale – e ha ribadito il prolungato e vacuo impegno statunitense nella promozione di “un duraturo accordo di pace”.
Considerando il pesante oltraggio delle politiche di Trump nei confronti di Gerusalemme e, più in generale, dei diritti dei palestinesi, così come la velocità con cui la sua amministrazione si sta muovendo per fare a pezzi i diritti umani e ambientali negli Stati Uniti e nel mondo, è facile farsi prendere dalla disperazione. Ma, proprio in un momento come questo, è importante tenere a mente le tendenze a lungo termine che agiscono a favore dei palestinesi e inquadrare al meglio il movimento nazionale palestinese, sia a livello politico che della società civile.
Il lungo percorso di Israele verso lo smascheramento
Molte delle tendenze a favore dei palestinesi sono dovute al fatto che Israele sta esagerando. Ha vinto molte battaglie ma non può vincere la guerra. Potrebbe sembrare solo una pia illusione, considerando l’enorme forza militare, politica ed economica che fa di Israele una superpotenza nella regione. Ma consideriamo il percorso del Paese. La vittoria del 1967 avrebbe permesso a Israele di raggiungere la pace con gli arabi alle proprie condizioni sul 78% della Palestina che aveva colonizzato nel 1948, e quindi di seppellire per sempre la causa palestinese.
Invece, Israele ha seguito la rotta tracciata dagli estremisti sionisti del XX secolo, concentrati sulla colonizzazione e sull’espropriazione al fine di garantire la minima presenza possibile di palestinesi autoctoni e la massima presenza di ebrei. Come disse Moshe Dayan nel 1950, a proposito dei 170mila palestinesi che poterono restare in quella che sarebbe diventata Israele nel 1948, dopo che 750mila furono costretti a diventare rifugiati: “Spero che, nei prossimi anni, si presenti una nuova possibilità di trasferimento di questi arabi dalla Terra di Israele”. Dayan sarebbe poi diventato un eroe di guerra israeliano nel 1967, quando circa altri 450mila palestinesi vennero costretti a diventare rifugiati.
Iniziata lentamente nel 1967, ma accelerando al massimo dopo gli Accordi di Oslo, apparentemente destinati a portare la pace quando furono firmati nel 1993, l’implacabile spinta di Israele alla colonizzazione del territorio appena acquisito ha prodotto circa 600mila coloni in 200 insediamenti che frammentano la Cisgiordania e dividono i palestinesi uno dall’altro. Il Master Plan israeliano per Gerusalemme è ancora aperto relativamente al rapporto – 70/30 tra ebrei israeliani e arabi palestinesi – previsto come risultato dello sfoltimento degli abitanti di Gerusalemme Est.
Basandosi sul “successo” in questa impresa, oggi i leader israeliani credono che non ci sia alcuna necessità di nascondere le proprie ambizioni e declamano apertamente i propri obiettivi, tra cui l’ulteriore espropriazione dei palestinesi e la discriminazione contro quelli che restano. Il numero di leggi discriminanti contro i cittadini palestinesi di Israele è aumentato da circa 50 a quasi 70 negli ultimi anni.
Sia gli organismi ufficiali che le organizzazioni di destra stanno riservando un trattamento simile agli ebrei israeliani che cercano di difendere i diritti di tutti gli esseri umani, indipendentemente dal loro credo o appartenenza etnica. Gli attacchi contro Breaking the Silence, una ong che incoraggia i soldati israeliani a parlare di ciò che sono stati costretti a fare ai palestinesi durante il servizio militare, ne sono solo un esempio.
Altro esempio è il giro di vite del Ministro dell’Educazione Naftali Bennett contro l’Acri (Associazione per le Libertà Civili in Israele). “Goliath: Life and Loating in Greater Israel”, di Max Blumenthal, narra il percorso sempre più drastico di Israele nel XX secolo fino ai giorni nostri e costituisce una lettura fondamentale per chiunque si interessi alla questione.
Lo status di “luce delle nazioni” che Israele si dà come “unica democrazia” del Medio Oriente è un lontano ricordo. Ormai, il progetto degli insediamenti, con la sua manifesta violazione dei diritti dei palestinesi, ha compromesso la principale aspirazione israeliana a uno Stato ebraico. Molti hanno utilizzato il termine apartheid per descrivere ciò che sta succedendo ai palestinesi nei Territori Occupati (Opt), incluse le strade separate, un sistema legale diverso, e pesanti limitazioni nell’accesso all’acqua, alla terra e perfino allo spettro elettromagnetico.
La situazione nei Territori Occupati ha costretto sempre più gli Stati e i rappresentanti della società civile a tener conto di ciò che sta succedendo – e di ciò che è successo – ai cittadini palestinesi di Israele. Se nessuno, a parte Jodi Rudoren – ex capo della redazione di Gerusalemme del New York Times – dice che il termine apartheid riguarda più che altro il modo in cui vengono trattati i cittadini palestinesi di Israele, allora è chiaro che la vera natura del progetto è venuta a galla. La prova c’è: è impossibile che esista uno Stato che privilegia gli ebrei senza discriminare i non-ebrei. Chi può sostenere, oggi, seriamente, che Israele sia uno Stato democratico?
Questa situazione ha portato a quella che forse è la più importante tendenza a lungo termine in questo conflitto: il cambiamento di opinione degli ebrei americani. Oggi c’è una piccola percentuale, che però è in rapida crescita, di ebrei statunitensi che si attiva per i diritti umani nel movimento di solidarietà con la Palestina. Alla guida di questo cambiamento c’è Jewish Voice for Peace (Jvp), che sostiene i diritti dei palestinesi come definiti dai palestinesi stessi nell’appello del 2005 al boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (Bds) contro Israele finché non rispetterà il diritto internazionale, e che ha un ruolo chiave, strategico, all’interno del movimento statunitense per i diritti. (1)
Il secondo, più profondo e più recente, cambiamento nella comunità ebraica statunitense è dovuto al venire a galla delle tensioni sommerse tra Israele e gli ebrei riformati e conservatori, che costituiscono i due terzi degli ebrei americani. Secondo una marea di articoli e ricerche sulla questione, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e i suoi alleati starebbero puntando tutto sugli ebrei americani ortodossi, ignorando gli altri, che quindi verrebbero considerati ebrei di seconda classe.
Questo è un enorme errore strategico da parte di Israele: gli ebrei americani contribuiscono fortemente alle cause filantropiche, come anche alle politiche e al pubblico dibattito. Allontanando questa parte importante di sostenitori, Israele – nonostante spenda milioni per controllare il dibattito e per far passare per antisemitismo le critiche a Israele e al progetto politico sionista – sta velocizzando negli Usa i cambiamenti che indeboliranno il sostegno politico automatico e l’enorme aiuto militare che oggi riceve, cambiamenti che porteranno al sostegno generale ai diritti dei palestinesi e alla rivalutazione della storia della Palestina.
La lotta di rinascita della Palestina
La lotta palestinese si è sviluppata ed evoluta parallelamente al percorso di Israele. Trent’anni dopo che i governanti coloniali britannici avevano schiacciato la rivolta palestinese per diritti e libertà, e vent’anni dopo la catastrofe della perdita di quattro quinti della Palestina nel 1948 e la dispersione di quattro quinti della sua popolazione, entrò in scena l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), che diventò rapidamente una forza con cui fare i conti.
Tuttavia, i ripetuti attacchi all’Olp, da parte israeliana ma anche araba, insieme ai gravi errori compiuti dalla sua leadership, ne comportarono quasi la scomparsa, con l’invasione del Libano nel 1982 e l’esilio dell’Olp da Beirut, sua ultima base al confine di Israele.
In soli cinque anni, però, la lotta palestinese assunse una nuova forma con la prima Intifada, rivolta nonviolenta guidata dai leader locali nei Territori Occupati. L’Intifada portò i palestinesi alla ribalta sulla scena mondiale e li avvicinò al raggiungimento dei loro obiettivi, dato l’impegno dell’amministrazione George W. Bush per raggiungere un accordo equo, sulla scia della prima guerra del Golfo del 1990. Purtroppo, i negoziati segreti dell’Olp con Israele, che portarono agli Accordi di Oslo, sprecarono i punti di forza palestinesi tanto attentamente coltivati, tra i quali un movimento di solidarietà mondiale e il sostegno del Terzo Mondo.
Nonostante tali ostacoli, i palestinesi non stanno scomparendo. Fin dal 1948, la lotta nazionale è stata caratterizzata da un fiorire di letteratura, arte, cinema, cultura che rafforza e solidifica l’identità nazionale.
Come dichiarato da Steven Salaita in un recente articolo, “niente spaventa tanto Israele come la sopravvivenza dell’identità palestinese attraverso le generazioni”. E anche se la leadership nazionale palestinese è – per usare un eufemismo – nel caos, la causa palestinese è appoggiata da un movimento di solidarietà internazionale che comprende ed è rafforzato dal Bds, movimento a guida palestinese. Negli ultimi cinque anni, Israele e i suoi sostenitori hanno dedicato tutti i loro sforzi per riguadagnare terreno e controllare il dibattito, ma (il Bds) è vivo e vegeto.
Quanto più semplice sarebbe stato per Israele scendere a patti con Giordania, Egitto e Siria nel 1967 piuttosto che puntare a conquistare tutto e scontrarsi con il movimento palestinese per i diritti in costante evoluzione e rinascita. (continua)
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Nota:
1.È importante sottolineare la seconda parte di questa frase, dati i fraintendimenti sul BDS. Il linguaggio dell’appello del BDS chiarisce che il movimento è contro le politiche di Israele, non la sua esistenza, e che, una volta raggiunti gli obiettivi del movimento – autodeterminazione, libertà dall’occupazione, giustizia per i rifugiati, uguaglianza per i cittadini palestinesi di Israele – il BDS avrà termine.