Nena News pubblica la seconda parte del racconto di Mirca Garuti dal campo del Bashur dove è stata messa in pratica l’ideologia socialista elaborata dal leader curdo “Apo” Abdullah Ocalan
Testo e foto di Mirca Garuti*
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Roma, 15 gennaio 2019, Nena News - I campi profughi nel mondo non sono tutti uguali. La loro diversità dipende dal luogo in cui si trovano e dal motivo della loro esistenza. Quello che però li rende uguali è la sofferenza per essere costretti a vivere una “non vita”, in un luogo che non è la propria terra e di non avere riconosciuto nessun diritto per un tempo indefinito. Vivere in un campo profugo significa vivere una vita non umana.
Il campo profughi palestinese di Chatila in Libano di un chilometro quadrato, per esempio, è l’espressione del degrado umano dove 20.000 persone di ogni etnia (8000 sono palestinesi, poi siriani, libanesi, eritrei …insomma è il rifugio dei più poveri) sono costretti a vivere praticamente l’uno sull’altro in una situazione non umana senza nessun diritto di lavoro, sanità, istruzione, proprietà ecc. Il campo profughi di Makhmour in Bashur, Kurdistan iracheno, in pieno deserto, è abitato da circa 13.000 curdi (ultimi censimento 6 anni fa) fuggiti dalla Turchia nel 1993, dove non possono tornare.
In entrambe queste situazioni, i residenti dei campi cercano di sopravvivere cercando di non essere dimenticati dalla comunità internazionale intrecciando relazioni con alcune organizzazioni che si occupano di diritti civili. La speranza di poter vedere realizzati i loro sogni, nonostante tutte le difficoltà ed il senso d’abbandono, continua a vivere dentro i loro cuori.
La speranza per il popolo palestinese in Libano si può tradurre nel lavoro di associazioni come Beit Atfal Assomoud, per quella del popolo curdo, risiede nell’applicazione del Confederalismo Democratico. Ma per entrambi, è e resta, la resistenza del loro popolo.
Il campo di Makhmour è un’oasi nel deserto ma, pur dovendo sempre rapportarsi con un clima crudele, con animali pericolosi e con nuovi e vecchi nemici, il suo popolo è riuscito a mettere in pratica l’ideologia socialista elaborata dal loro leader curdo “Apo” Abdullah Ocalan che ancora oggi si trova dal 1999, in totale isolamento sull’isola carcere di Imrali. In questa prigione, costruita con l’approvazione delle istituzioni europee, non può incontrare i suoi avvocati dal 27 luglio 2011 e l’ultima visita della sua famiglia risale al 11 settembre 2016. Per questo nessuno sa quali siano in realtà, le sue reali condizioni di salute.
Il campo di Makhmour è diverso da tutti gli altri campi profughi nel mondo. E’ diverso come organizzazione, come spirito, ma anche qui la vita è molto dura. La storia di questo campo assomiglia ad una grande epopea storica.
La migrazione dalla Turchia inizia nel 1993 con la guerra contro il PKK nel Kurdistan settentrionale o Bakur. L’esercito invase i villaggi vicini al confine con l’Iran e l’Iraq, costringendo gli abitanti a dover scegliere tra la collaborazione con i militari nella repressione del partito, l’uccisione o la fuga. I villaggi furono come al solito incendiati e le persone perseguitate. La maggioranza scelse l’esilio. Il PKK era onorato. In montagna c’erano i propri figli, mariti, sorelle, fratelli. Non si poteva tradire!
I profughi oltrepassarono la provincia di Sirnak e giunsero nel Bashur, nel Kurdistan iracheno che nel 1991 aveva ottenuto l’autonomia da Baghdad, grazie alla guerra del Golfo e agli americani, controllato a nord dalle milizie del Pdk di Barzani, alleato con Stati Uniti e Inghilterra. Una catena di civili si mise in marcia a piedi in fila uno dietro all’altro. All’inizio erano in pochi, ma poi, di villaggio in villaggio, la catena si trasformò in una colonna di 15.000 persone.
Quello che faceva paura ai turchi era la loro unità, la loro decisione di stare tutti insieme. Passarono il confine ed arrivarono ai piedi del monte Hantur, a Behere. Iniziarono i bombardamenti su quella specie di campo. Dopo tre mesi arrivò l’Unhcr nonostante la posizione negativa del governo turco. Ma nemmeno il governo del Kurdistan di Barzani li voleva. L’arrivo delle Nazioni Unite migliorò solo di poco la loro condizione. Una notte di novembre, senza dir nulla ai peshmerga di Barzani, decisero di andarsene. Non potevano più continuare a stare sotto le bombe. Attraverso vari sentieri arrivarono sotto le montagne di Zakho, a Bersire. Ma anche qui non trovarono pace. L’esercito turco attraversò il confine ed attaccò i profughi a Zakho. Il governo regionale, con la scusa di non aver chiesto il permesso di spostarsi, mise in atto un embargo contro di loro. Non potevano uscire dal campo per qualsiasi motivo.
Il tempo passava inesorabile. All’inizio del 1995, arrivarono alcune Ong e spostarono tutta quella popolazione a Etrus in due campi distanti un paio di chilometri l’uno dall’altro. Da quel momento, le 15.000 persone furono riconosciute ufficialmente come profughi dall’Unhcr, ma dovevano ubbidire ai loro ordini, non potevano autorganizzarsi. I profughi non accettarono questa imposizione. Volevano dividere gli aiuti che ricevevano secondo le loro esigenze e abitudini, ed iniziarono anche a creare comitati per gestire i problemi quotidiani e il rapporto con le Ong. Iniziò così l’Operazione Acciaio. I peshmerga circondarono il campo con dei presidi militari e non facevano più uscire o entrare nessuno, in caso contrario, sparavano. Alla fine le tombe sono state 100, una trentina uccisi dai peshmerga, altri morti per malattia. Non c’era cibo, non c’era acqua. Dopo un anno, a metà del 1996 furono spostati in un altro campo, a Ninive. Unico modo per far finire l’embargo.
Il Pdk e la Turchia convinsero l’Onu a sgombrare il campo e a disperdere tutti i suoi abitanti in zone lontane e distanti tra di loro. Cinquemila persone accettarono l’offerta e vennero trasferite in diversi villaggi e città del Kurdistan iracheno. In 10.000 invece rifiutarono il piano e restarono insieme. Si rifugiarono senza nessuna copertura e in maniera illegale, vicino a Mosul, nella piana di Niniveh, zona cuscinetto tra la regione di Barzani e quella controllata da Saddam. Ma il governo regionale non li voleva, neppure lì si poteva stare. Si spinsero allora, in una notte di gennaio, abbandonando tutto, ancora più avanti nella zona di Saddam. Restarono cinque mesi accampati davanti al checkpoint in una zona militarizzata.
La zona purtroppo era minata e molti rimasero uccisi. A maggio del 1997 il comitato delle 10.000 persone trovò un accordo con la prefettura irachena ed entrarono nella terra di Saddam, anche se con paura.
L’Onu finalmente riuscì nel 1998 a convincere il governo a concedere ai profughi un insediamento.
Saddam aveva accettato di accogliere questi profughi perché sapeva che i curdi di Barzani, con i quali era in conflitto, erano loro nemici. La scelta cadde sulla zona inospitale desertica di Makhmur a sud di Mosul. Ultimo viaggio. Il più terribile. Arrivarono nel deserto. Non c’era erba, acqua, nessuna struttura, solo un vento di sabbia. Fu così che il campo di Makhmur, dal 1998, passò sotto il controllo dell’ONU. I suoi abitanti provengono dal Kurdistan del nord, da Colemêrg (Hakkari), Şirnex (Şırnak) e Van. Tutti si sono rifiutati di lavorare per lo Stato turco come guardiani di villaggio, anche perché in ogni famiglia c’è almeno un morto avvenuto per mano turca.
Qui il clima è freddo d’inverno e caldissimo in estate. La forte presenza di insetti velenosi e scorpioni hanno provocato molte malattie e decessi tra la popolazione. E’ un campo in rivolta contro tutto e tutti.
In questi vent’anni, la sua popolazione è sopravvissuta a tante persecuzioni e nonostante non siano stati aiutati da nessuno, da soli hanno costruito questa città con case, scuole, centri di comitati ed un’amministrazione municipale. Un “sistema società” organizzato grazie alla messa in pratica del Confederalismo democratico. Il loro obiettivo è quello di superare il capitalismo e fondare un socialismo democratico che abbia al suo centro, oltre all’equa distribuzione delle risorse, la tutela dell’ambiente e l’emancipazione della donna.
Makhmour è stato anche protagonista tra il 6 e l’8 agosto del 2014 di una battaglia contro l’ISIS. I peshmerga che controllavano la zona tra Mosul, Makhmur e Kirkuk si dispersero subito difronte alla violenza di Isis. Un responsabile non militare del PKK ricevette la richiesta di sgombro immediato di tutta la popolazione del campo. Ci fu una corsa contro il tempo, ma riuscirono a requisire un numero sufficiente di autobus e camion, vincendo la resistenza del KRG (Governo autonomo del Kurdistan), per l’evacuazione, mentre in città si diffondeva il panico. Arrivato il buio, gli adulti, raccolti velocemente i loro principali averi, insieme ai bambini assonnati ed inconsapevoli di quel trambusto e gli anziani, che ancora una volta erano pronti per una nuova fuga, prese avvio la lunga marcia verso la salvezza.
Mentre la colonna di automezzi civili si avviava verso Erbil, in senso contrario stavano arrivando i pick-up dei combattenti dell’HPG (forza di difesa del popolo) per difendere Makhmour. Le linee di difesa lasciarono entrare nel campo i miliziani dell’ISIS, poi iniziarono a bersagliarli dalle alture e contemporaneamente contrattaccarli infiltrandosi, guidati da alcuni abitanti che conoscevano bene il campo, tra vie delle abitazioni. Gli uomini dell’Isis, dopo la fuga dei peshmerga, non pensavano di certo dover affrontare una tale resistenza organizzata e aggressiva. Tutta la gloria va a questi guerriglieri: due giorni e due notti di scontri feroci tra le case della loro gente.
Makhmour rappresenta un simbolo di resistenza per tutto quello che un popolo in fuga è riuscito a costruire in quel luogo, ai piedi di colline di pietra, in uno spazio di terra senza acqua, dove il governo del Kurdistan iracheno li aveva mandati a morire.
Siamo rimasti per i primi cinque giorni del nostro viaggio nel campo di Makhmour ospiti di famiglie. E’ inutile descrivere l’ospitalità che abbiamo ricevuto! Non eravamo ospiti ma componenti della loro stessa famiglia. Yuksek Kara, il nostro padrone di casa nonché Responsabile delle Relazioni esterne del campo ci ha sempre accompagnato in tutti gli incontri.
Per arrivare al campo incontriamo alcuni posti di blocco controllati, dopo il referendum del luglio 2017 per l’indipendenza dell’Iraq, dai soldati dell’esercito di Baghdad (prima erano controllati dai Peshmerga curdi iracheni). In uno di questi chek-point ci ritirano i passaporti che ci saranno poi restituiti solo alla nostra uscita dal campo. E’ una prassi abituale, ma ci lascia ugualmente un po’ perplessi e preoccupati. L’ultimo è presieduto dai curdi. In tutta la zona vige un coprifuoco che limita l’ingresso al campo dalla mezzanotte alle sei di mattina.
(la terza e ultima parte qui)
* Il reportage è stato pubblicato originariamente su alkemianews