Il premier Netanyahu propone di smantellare l’Unrwa, il ministro dell’Istruzione Bennet preferisce una “Gerusalemme unita, ad un accordo di pace”. Lieberman, titolare del dicastero della Difesa, si vanta invece del maggior numero di progetti dal 1992 nelle colonie in Cisgiordania
di Roberto Prinzi
Roma, 12 giugno 2017, Nena News – Non pago della sua crociata contro i sostenitori del Bds e delle ong locali “di sinistra”, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha trovato un nuovo target da eliminare: l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa). La motivazione? L’Unrwa, afferma il premier, deve essere smantellata perché promuove istigazione anti-israeliana, soprattutto nelle sue scuole. Non solo: intervenendo ieri alla riunione settimanale del suo esecutivo, Netanyahu ha spiegato che l’agenzia dell’Onu “perpetua e non risolve” il problema dei rifugiati palestinesi e, considerata quindi la sua inutilità e perniciosità, dovrebbe fondersi con l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr). “Bibi” ha detto poi di averne parlato già mercoledì scorso con l’ambasciatrice Usa all’Onu Nikki Haley a cui ha chiesto espressamente di “riesaminare la sua esistenza”.
Nello sferrare questa bordata contro l’Agenzia per i rifugiati palestinesi, Netanyahu ha cercato di sfruttare a suo favore i recenti eventi di cronaca. Qualche giorno fa, infatti, l’Unrwa aveva riferito di aver trovato un tunnel sotto due scuole in un campo profughi della Striscia di Gaza e aveva prontamente accusato Hamas che governa la piccola enclave e che ne aveva utilizzato i tunnel per compiere operazioni militari all’interno d’Israele durante la guerra del 2014. Un assist d’oro per Netanyahu e i membri del suo governo per attaccare tout court i palestinesi e, contemporaneamente, giustificare la legittimità dei piani espansionistici di Tel Aviv.
Le dichiarazioni di Netanyahu hanno destato non poca rabbia all’interno dell’Unrwa. Il suo portavoce a Gaza, Adnan Abu Hasna, ha bollato come “fantasia” la richiesta del leader israeliano. Intervistato dalla radio israeliano, Abu Hasna ha poi sventolato la carta del radicalismo islamico: “Se l’Unrwa se ne va allora nella Striscia, due milioni di persone diventerebbero sostenitori dell’Is [Stato Islamico, ndr]”.
Più calmo è apparso invece alla Reuters il portavoce dell’Agenzia Chris Gunness: “Solo un voto a maggioranza dell’Assemblea generale potrà cambiare il nostro mandato. Lo scorso dicembre abbiamo ottenuto un’estensione per altri tre anni con una larga maggioranza”. Dunque, sembra suggerire Gunness, non c’è nessun problema. Solo spin politico. Del resto bisognerebbe capire anche che atteggiamento assumerebbero gli Usa che sono sì il principale alleato di Tel Aviv, ma anche il principale paese donatore dell’organizzazione con 368 milioni di dollari. Per ora Washington preferisce il silenzio.
Che le parole di Netanyahu siano più o meno realizzabili sul campo è però una questione secondaria. Qui l’aspetto da sottolineare è ormai la totale libertà di azione che ha Tel Aviv nell’annunciare (e realizzare) il suo progetto politico a danno dei palestinesi. I motivi di felicità per Bibi e soci sono del resto legittimi: un’amministrazione Usa completamente schierata con lo stato ebraico (anche se alcuni in Israele vogliano ancora di più), un mondo arabo completamente diviso con una gran parte di esso che guarda ormai a Tel Aviv come un’alleata anti-Iran più che come “nemica”, un quadro politico palestinese disarmante con i due principali partiti impegnati a farsi la guerra.
Netanyahu e i suoi alleati di governo sanno che il momento internazionale gira a loro favore. Ciò è apparso evidente ancora una volta ieri quando il ministro della difesa Lieberman, facendosi beffe degli appelli della comunità internazionale, ha ricordato come Israele quest’anno abbia avanzato il maggior numero di progetti coloniali dal 1992 (da gennaio ben 8.345 case in Cisgiordania). Ieri, inoltre, una commissione governativa israeliana ha votato a favore di una mozione che, se dovesse diventare legge, bloccherà il trasferimento annuale di 1 miliardo di shekel (280 milioni di dollari) all’Autorità palestinese per il programma di compensazione dei “martiri” che fornisce aiuti finanziari ai palestinesi imprigionati da Israele e alle loro famiglie.
Che la pace con i palestinesi non sia la priorità per Tel Aviv è stato ribadito stamattina dal ministro dell’educazione Naftali Bennet quando ha detto che è meglio una “Gerusalemme unita che un accordo diplomatico”. “La pace – ha poi aggiunto – non la si raggiunge con le concessioni, ma con la forza. Voglio la pace esattamente come voi, ma voglio una pace di destra”. Bennet ha poi presentato il suo progetto: “In Giudea e Samaria [Cisgiordania, ndr] ci saranno due aree – Area C [il 60% del territorio, ndr ] dove l’obiettivo è avere il maggior territorio possibile con il minor numero di palestinesi. A quelli di loro che resteranno offriremo la cittadinanza. Nelle aree A e B ci sarà un’autonomia palestinese senza controllo della sicurezza [che quindi spetterà a Tel Aviv, ndr]. In pratica, “non ci sarà alcuno stato palestinese dopo Gaza. Dobbiamo imparare da quanto è accaduto lì nel 2014. A Gaza la situazione umanitaria si sta aggravando, dobbiamo prevenire che scoppi un altro giro di violenza”. Che la Striscia sia assediata dallo stato ebraico (e in misura diversa dall’Egitto) questo Bennet non lo ha voluto ricordare.
Intanto, in un articolo pubblicato oggi Ha’Aretz sostiene che Netanyahu e il leader del Campo Sionista Herzog si sono recati segretamente al Cairo per incontrare al-Sissi. Nel corso dell’incontro, avvenuto nell’aprile del 2016, il presidente egiziano avrebbe chiesto agli israeliani di riavviare i colloqui di pace. Una missione che più che la conciliazione con i palestinesi mostrerebbe invece un elemento più interessante: l’unione dei laburisti con i rivali storici del Likud era allora molto concreto. Nena News
Roberto Prinzi è su Twitter @Robbamir