A metà del 2015 la Repubblica Islamica ha già mandato al patibolo 700 persone. Per gli attivisti, chiuso l’accordo sul nucleare, è il momento per Rouhani di aprire il file dei diritti umani
di Sonia Grieco
Roma, 25 luglio 2015, Nena News – Amnesty International (AI) l’ha definita “un’attività frenetica” e in effetti dall’inizio dell’anno l’Iran ha eseguito 694 condanne a morte, l’equivalente di oltre tre persone al giorno. Il boia non si è fermato neanche durante il mese del Ramadan, che ha visto andare al patibolo quattro persone.
Cifre “sconcertanti” per Said Boumedouha, vice direttore di AI Medio Oriente e Nord Africa: “Di questo passo alla fine dell’anno si arriverà a oltre mille esecuzioni”. “L’uso della pena di morte è sempre ripugnante, ma è ancora più preoccupante in un Paese come l’Iran, dove i processi sono palesemente iniqui”.
A comminare con tanta facilità condanne capitali sono tribunali per niente indipendenti e imparziali, in processi spesso sbrigativi, viziati e celebrati a porte chiuse. Agli imputati è spesso negato di parlare con gli avvocati durante la fase investigativa e le procedure per ricorrere in appello o per chiedere la commutazione della pena, oppure il perdono, sono inadeguate. Sono stati denunciati casi di torture e maltrattamenti. Inoltre, si finisce nel braccio della morte per reati che variano da crimini gravi, come l’omicidio, ad azioni che non dovrebbero neanche essere criminalizzate.
La condizione dei condannati a morte è particolarmente inumana. Aspettano il proprio momento senza avere indicazioni di quando saranno messi a morte, senza poter vedere i propri cari che a volte sono informati giorni, anche settimane, dopo l’esecuzione.
Non è chiaro cosa ci sia dietro queste cifre preoccupanti, ma secondo quanto si apprende dalle autorità iraniane, l’80 per cento dei detenuti nel braccio della morte è accusato di reati legati al traffico di droga. La legge iraniana, che prevede la pena capitale per un’ampia gamma di reati di droga, viola il diritto internazionale che ne limita l’uso ai reati più gravi, quelli che riguardano l’omicidio. D’altronde, non ci sono elementi che confermino che il ricorso al boia sia un deterrente e, invece, è evidente che i condannati a morte provengono da ambienti svantaggiati, ai margini della società. “Siamo vittime della miseria” , ha spiegato uno di loro ad Amnesty: “Se avessimo un lavoro, […] perché dovremmo imboccare una strada che ci garantisce la morte?”
Ma non ci sono soltanto persone spinte a delinquere dalla miseria. Le carceri della Repubblica Islamica sono piene di dissidenti, di prigionieri di coscienza, di attivisti e di membri di minoranze etniche e religiose. Finiscono dietro le sbarre con vaghe accuse legate a questioni di sicurezza nazionale e le cose continuano a funzionare così anche dopo le pressioni del presidente Hassan Rouhani su Parlamento e magistratura affinché fossero definiti meglio i reati politici.
È proprio a Rouhani, l’uomo che sta riportando l’Iran sulla scena internazionale, che pensano gli attivisti. Adesso che il capitolo sul nucleare iraniano è stato chiuso, la sua popolarità interna gli dà la forza per agire sulla questione dei diritti umani, cui potrebbe dedicare la seconda parte del suo mandato. Il successo ottenuto a Ginevra resta monco se non si cambia passo rispetto alle violazioni dei diritti della persona di cui si macchia l’Iran, non soltanto riguardo allo “sconcertante” ricorso al boia nei tribunali del Paese.
“Rouhani ha fatto alcune promesse elettorali, tra cui alcune che riguardano i diritti umani. È stato preso dal file sul nucleare, adesso dovrebbe concentrarsi su quello dei diritti umani”, ha detto al Guardian Ahmed Shaheed, inviato speciale Onu per le violazioni dei diritti umani in Iran. La situazione nella Repubblica Islamica è peggiorata, secondo Shaheed. Non è una colpa diretta del presidente, ma Rouhani potrebbe far sentire il suo peso su quella parte di apparato, l’intelligence e la magistratura, che è responsabile degli abusi.
Finora l’isolamento internazionale dell’Iran ha funto anche da scusa per mettere in fondo alle priorità, alle questioni da affrontare, la violazione dei diritti delle persone. Questa scusa adesso non regge più, ha detto l’avvocato e attivista Nasrin Sotoudeh, in carcere da maggio per reati legati alla sicurezza nazionale. “L’Iran ha negoziato con la comunità internazionale per trovare una soluzione alla questione del nucleare. Dovrebbe fare lo stesso a casa sua e aprire un dialogo con l’opposizione e i dissidenti interni”, ha spiegato Sotoudeh, nota per la sua battaglia contro le esecuzioni di minori e vincitrice con il regista Jafar Panahi del Premio Sakharov per la libertà di pensiero nel 2012. Nena News