“Se il rischio di uno scontro reale non è probabile, è comunque possibile per una serie di ragioni. In primo luogo il ruolo di Turchia e Arabia saudita”, dice l’analista palestinese Mouin Rabbani
di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Roma, 20 febbraio 2016, Nena News – Interessi regionali e globali si sovrappongono e fanno risuonare i tamburi di guerra. Ma lo scontro, nel campo di battaglia siriano, è davvero inevitabile?
Ne abbiamo parlato con Mouin Rabbani, ricercatore palestinese e collaboratore dei think tank Jaddaliyya e Al-Shabaka. Ha lavorato nel dipartimento Affari Politici dell’Ufficio dell’inviato Onu per la Siria.
Dopo l’accordo di Monaco sulla cessazione delle ostilità, deciso senza alcun siriano al tavolo, ilconflitto si è intensificato. Qual è la ragione di tale escalation?
Non penso sia una reazione all’accordo. I raid russi hanno permesso all’esercito siriano e le milizie alleate di realizzare risultati significativi nelle ultime due settimane. È possibile che l’escalation a cui abbiamo assistito a fine gennio, a stretto giro dal via al negoziato di Ginevra, sia stata una deliberata provocazione delle opposizioni, per forzarle a lasciare il tavolo. Ma la successiva intensificazione, dopo Monaco, non è collegata all’accordo: la Russia ha detto da subito che avrebbe proseguito nei bombardamenti contro le organizzazioni terroristiche escluse dal cessate il fuoco. Non hanno avuto bisogno di un pretesto.
I due fronti in campo usano i mezzi militari per imporre la propria volontà ad un eventuale tavolo del negoziato. Si tratta di mere minacce o è immaginabile una concretizzazione dello scontro?
È una domanda difficile: non esistono coalizioni definite che operano sul terreno. Sul lato governativo Russia, Siria, Iran e Hezbollah hanno sì posizioni comuni ma anche differenze di vedute: Damasco si oppone a qualsiasi processo politico perché sa che l’avvio di una transizione segnerà la fine del regime; Mosca al contrario vorrebbe che elementi delle opposizioni moderate partecipino al governo di unità. Se si guarda all’altro fronte, gli Usa hanno accettato a grandi linee l’agenda russa, ma altri attori sono determinati ad eliminare Assad a ogni costo. Questo si riflette sul tavolo del negoziato: negli ultimi mesi Mosca e Damasco hanno sfruttato l’avanzata sul terreno per influenzare il dialogo. Se il rischio di uno scontro reale non è probabile, è comunque possibile per una serie di ragioni. In primo luogo il ruolo di Turchia e Arabia Saudita.
Veniamo proprio alla Turchia: Ankara colpisce le Ypg, alleate Usa contro l’Isis, e minaccia interventi di terra. Erdogan è una scheggia impazzita o è mosso dagli interessi Nato?
I kurdi giocano un ruolo sempre più importante nel nord della Siria e la Turchia, in aggiunta alla politica di opposizione ad Assad, vede questa espansione come una minaccia diretta. Sono così tanti gli interessi locali, regionali e internazionali in ballo da creare conflitti interni. Anche alla Nato: due suoi membri, Turchia e Usa, che pubblicamente dicono di perseguire lo stesso fine, localmente sostengono proxy in conflitto tra loro, Jaysh al-Fatah i primi e le Ypg nel secondo. Dall’altra parte fronti opposti, Usa e Russia, che sembrano avere agende incompatibili in Siria, sostengono entrambi le forze kurde.
Anche i sauditi minacciano interventi ma la loro è una posizione di debolezza, economica e diplomatica
I sauditi soffrono un senso di abbandono, soprattutto da parte degli Stati Uniti a seguito dell’accordo sul nucleare iraniano. Devono dimostrare la propria credibilità e spingono per un intervento che li salvi dall’oblio. Mettendo insieme questi elementi, il conflitto russo-turco e la rivalità tra Iran e Arabia Saudita, non si può escludere che – per caso o deliberatamente – si giunga allo scontro diretto. È tuttavia vero che negli ultimi 5 anni, ogni volta che una parte ha provocato l’altra non ha reagito.
Intanto le opposizioni si sono riunite in una federazione estremamente diversificata, dai salafiti di Ahrar al-Sham e Jaysh al-Islam ai laici dell’Els. Come possono rappresentare un’alternativa credibile?
Negli ultimi mesi i gruppi di opposizione sono finiti sotto un’enorme pressione militare che ha portato ad alleanze di convenienza e spinto certi attori ad approfittare della situazione per eliminare dei rivali. I sauditi hanno lavorato per assicurare che la “propria” opposizione diventasse la leader della delegazione al tavolo di Ginevra. Lo stesso hanno fatto Qatar e Turchia, riuscendo nell’intento: Ankara ha imposto l’esclusione dei kurdi e Riyadh ha ottenuto che l’opposizione storica, in esilio a Istanbul, rappresentasse solo una minima parte del più ampio fronte anti-Assad, accrescendo così la propria influenza sul negoziato.
Rispunta anche l’appoggio israeliano alle opposizioni siriane. Come si pone Israele nella crisi?
Israele vuole che questo conflitto duri il più a lungo possibile, senza vincitori, così che la Siria come società, come Stato, come entità militare, ne esca disgregata e quindi incapace di opporsi al disegno strategico israeliano nella regione. Ma Tel Aviv è anche consapevole dei pericoli: se Assad vincerà, si troverà comunque in una posizione di debolezza e sarà maggiormente soggetto all’influenza iraniana. Iran e Hezbollah avranno maggiore spazio di manovra al confine tra Siria e Israele, come mai prima.
“Damasco si oppone a qualsiasi processo politico perché sa che l’avvio di una transizione segnerà la fine del regime.”
Sembra essere un’opinione del tutto gratuita. Le “opposizioni” di qualsiasi genere non sono in grado di affrontare le elezioni contro Assad. Per questo continueranno a combattare finché qualcuno darà loro armi, munizioni, benzina, cibo e mezzi.
Questo è il nocciolo della questione: il fatto che in sede ONU è già stato deciso che il destino politico del Paese dovrà essere scelto dai siriani, cosaci gli jihadisti non potranno mai accettare.
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