La Camera dei Rappresentanti della Bosnia-Erzegovina ha approvato l’iniziativa che chiede alle autorità locali di cambiare i nomi di luoghi pubblici intitolati a fascisti con quelli dei “Giusti tra le Nazioni”, lista stilata dallo Yad Vashem di Gerusalemme
di Marco Siragusa
Roma, 22 gennaio 2020, Nena News – Lo scorso 11 gennaio la camera bassa della Bosnia-Erzegovina ha approvato l’iniziativa del deputato Damir Arnaut, del partito socialiberale Naša Stranka (Nostro Partito), che mira a eliminare qualsiasi riferimento al periodo dell’occupazione fascista dalla toponomastica delle città bosniache. La proposta prevede di cambiare il nome ai luoghi pubblici, come strade e scuole, dedicati a personaggi che si sono macchiati di collaborazionismo con gli occupanti nazi-fascisti durante la seconda guerra mondiale. Arnaut ha suggerito di ribattezzare questi luoghi con i nomi delle 49 persone inserite nella lista dei “Giusti tra le Nazioni” stilata dall’Ente nazionale per la Memoria della Shoah di Gerusalemme Yad Vashem.
L’iniziativa potrebbe però rimanere lettera morta dato che la sua applicazione spetta ai singoli comuni. Non è la prima volta infatti che qualcuno propone di cambiare il nome delle vie in Bosnia-Erzegovina. Il tema è ormai da tempo al centro di un’ampia e aspra discussione tra i partiti etno-nazionalisti del paese, soprattutto in riferimento alle strade dedicate a personaggi legati alla guerra degli anni Novanta. Per quanto riguarda quelle intitolate ai fascisti e ai collaborazionisti, negli ultimi anni c’erano stati già due tentativi a livello locale, entrambi a Mostar nel 2009 e nel 2016, ma lo stallo politico aveva bloccato sul nascere qualsiasi tentativo.
Al di là della validità dell’idea di eliminare i nomi di fascisti dalle vie delle città bosniache, la proposta di Arnaut mostra qualche aspetto critico. Innanzitutto il riferimento diretto allo Yad Vashem. L’Ente venne fondato nel 1953 per «documentare e tramandare la storia del popolo ebraico durante la Shoah». Ormai da qualche anno, però, l’Ente è accusato di concentrare la propria attenzione solo sui crimini subiti dagli ebrei, dimenticando la tragedia di tutte le altre vittime. Ancora più netta la critica secondo cui Yad Vashem contribuisce alla retorica del governo israeliano che tende ad equiparare all’antisemitismo qualsiasi critica al sionismo e alle azioni dello Stato di Israele verso i palestinesi. In sostanza, secondo i critici, da Ente per il ricordo e la memoria storica lo Yad Vashem si sarebbe via via trasformato in strumento di propaganda dei vari governi israeliani. Il fatto che il Museo di Gerusalemme sia diventato ormai una tappa fissa delle visite ufficiali delle delegazioni straniere contribuisce a fornire l’immagine di un’istituzione sempre più politicizzata.
Una visione che è stata recentemente alimentata dalla decisione del primo ministro Benjamin Netanyahu di nominare direttore dell’Ente l’ex generale Efi Eytam, famoso per le sue posizioni razziste, antipalestinesi e vicine all’estrema destra israeliana. La nomina ha suscitato dure critiche sia in patria che all’estero con il capo del Memoriale e Museo di Auschwitz-Birkenau in Polonia, Piotr Cywiński, che si è detto «preoccupato per il futuro di questa istituzione».
A questo si collega l’altro aspetto critico della proposta di Arnaut, arrivata pochi giorni dopo la decisione di Netanyahu. Non è la prima volta che Arnaut prende posizione in favore del governo israeliano. Era già successo il 15 agosto 2020 quando su Twitter aveva criticato la presidenza della Bosnia-Erzegovina e il ministero degli Affari Esteri per «non aver accolto con favore lo storico accordo di pace tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti». La strana tempistica tra la bufera dovuta alla nomina di Efi Eytam e la proposta presentata da Arnaut solleva più di un dubbio sul reale significato dell’iniziativa, forse rivolta a fornire un sostegno politico all’Ente israeliano. Alle nostre richieste di chiarimenti su questi aspetti della vicenda, il deputato Damir Arnaut non ha voluto rilasciare dichiarazioni.
Ai media bosniaci, Arnaut ha dichiarato che «non c’è posto in questo paese per il comandante ustaša (movimento fascista croato, ndr) Jure Francetić, il comandante cetnico (filomonarchico e anticomunista, ndr) Draža Mihailović o l’ufficiale delle SS Sulejman Pačariz», aggiungendo che l’approvazione della sua iniziativa «ha riportato la Bosnia-Erzegovina ai suoi valori antifascisti».
La lista dei “Giusti tra le Nazioni”, citata da Arnaut, include persone non ebree che si sono contraddistinte per l’eroismo nel salvare gli ebrei dal genocidio nazista durante la guerra. La lista bosniaca è composta da 49 nomi. Molte le storie interessanti legati a essi. Come nel caso di Nevenka Barić, giovane studentessa di Sarajevo che aiutò una donna ebrea a fuggire dai rastrellamenti nazisti per poi unirsi ai partigiani di Tito.
Simbolo di dialogo e interculturalità la vicenda di Borislav Komljenović, figlio di un prete ortodosso di Sarajevo e caro amico di Benjamin Urbach figlio del rabbino capo ashkenazita. Per scappare dai nazisti Urbach si rifugiò nella soffitta dell’amico che, dopo qualche mese, lo aiutò a fuggire verso Mostar.
Simile la vicenda che vide protagonisti Zayneba e Mustafa Hardaga, appartenenti a una famiglia musulmana che osservava in maniera rigorosa la legge coranica. I loro vicini, i Kabilio, erano ebrei proprietari della più grande fabbrica di pipe della Jugoslavia. La diversa appartenenza religiosa non impediva alle due famiglie di intrattenere buoni e rispettosi rapporti di vicinato. Il rispetto si trasformò in solidarietà quando i bombardamenti nazisti su Sarajevo del 14 aprile 1941 distrussero la casa dei Kabilio. Gli Hardaga decisero immediatamente di accogliere i vicini in casa propria, situata esattamente al lato opposto del quartier generale della Gestapo. Per non mettere a repentaglio la vita dei vicini, i Kabilio tentarono poco dopo la fuga verso Mostar ma vennero arrestati e sottoposti ai lavori forzati. Il capofamiglia, Josef Kabilio, riuscì a scappare e tornare nella casa degli Hardaga. Dopo due mesi si ricongiunse con la sua famiglia con cui si unì ai partigiani di Tito.
Molti degli ebrei salvati durante la seconda guerra mondiale lasciarono successivamente la Jugoslavia. Secondo una stima della Jewish Virtual Library furono circa ottomila quelli che nel 1952 raggiunsero il neonato Stato di Israele. A distanza di quasi cinquant’anni in tanti decisero di abbandonare la Bosnia a causa della guerra per recarsi in Israele. Molti di questi hanno mantenuto i contatti con le famiglie che, decenni prima, aiutarono le loro a fuggire dal massacro. Nena News