Nel paese si va a elezioni l’anno prossimo, dopo decenni di tornate elettorali sanguinose. L’avvento della democrazia multipartitica nel 1992 ha portato all’etnicizzazione della politica, con i partiti che si uniscono attorno ai mediatori del potere tribale
di Federica Iezzi
Roma, 9 aprile 2022, Nena News – Negli ultimi anni, la democrazia in Africa ha tremato. Il ritorno dei colpi di stato militari in Guinea, Ciad e Mali, l’inefficace rivoluzione democratica in Sudan, i conflitti civili e la violenza politica in Etiopia e Somalia. In Uganda e Tanzania, elezioni libere ed eque si sono rivelate un obiettivo sfuggente.
È in questo ambiente febbrile che il Kenya si prepara ad affrontare i propri demoni elettorali. A partire dai sondaggi. A volte sono stati davvero strumenti per l’espressione della volontà popolare, come nel 2002, quando l’ex dittatore Daniel Arap Moi, successore di Jomo Kenyatta, perse contro il democratico Mwai Kibaki, leader della National Rainbow Coalition.
Solo cinque anni dopo, il Paese si è quasi fatto a pezzi a causa dei risultati elettorali contestati. Da allora, le elezioni sono diventate occasioni che ispirano grandi speranze di cambiamento e contemporaneamente una terribile paura dei risultati.
Gli ultimi due cicli elettorali presidenziali hanno visto questa dinamica all’opera. Sono ancora vividi i ricordi delle violenze etniche post-elettorali del 2007-2008 tra i due principali schieramenti politici, i Kikuyu del Partito di Unità Nazionale, guidati dal Presidente Mwai Kibaki, e i Luo del National Super Alliance (NASA), coalizione dei principali partiti all’opposizione, con a capo Raila Odinga.
Tensione alta anche nel 2013 durante le elezioni di presidente, membri del Parlamento, governatori regionali e dirigenti di 47 assemblee distrettuali. Nonostante le abbondanti prove, le elezioni non si svolsero nel rigoroso rispetto della legge e la neonata Corte Suprema, guidata dall’avvocato Willy Mutunga, fece di tutto per dichiarare valido il risultato. Così, Uhuru Kenyatta divenne presidente.
Nel 2017, l’offerta di Kenyatta per la rielezione è naufragata quando la Corte Suprema, guidata da David Maraga, giudice ultra-conservatore, ha annullato le elezioni per mancato rispetto della legge.
I tribunali kenyani negli ultimi anni hanno dimostrato coraggio nella difesa della Costituzione, frenando i tentativi di Kenyatta e di Odinga di cambiarla. I sondaggi presidenziali meno violenti sono stati nel 2002 e nel 2013, quando i limiti di mandato hanno impedito rispettivamente a Daniel Arap Moi e al suo successore Mwai Kibaki di candidarsi ancora.
Kenyatta affronterà la stessa barriera l’anno prossimo e la sua volontà di minacciare e cooptare istituzioni indipendenti rimane immutata. Ma Martha Koome, rinomata avvocata, difensora dei diritti umani e prima donna a capo della giustizia del Paese, ha mostrato poca voglia di combattere con l’esecutivo.
Il sostegno alla democrazia in tutto il continente rimane ostinatamente alto, secondo i sondaggi di opinione. L’avvento della democrazia multipartitica in Kenya nel 1992 ha portato all’etnicizzazione della politica, con i partiti che si uniscono attorno ai mediatori del potere tribale, e a un panorama politico in continua evoluzione, mentre le alleanze interetniche si formano e si disgregano.
In assenza di partiti basati su un’ideologia politica coerente, la strumentalizzazione delle identità tribali e la manipolazione delle lamentele etniche rimangono la base primaria della mobilitazione politica, con la seria minaccia della violenza. Nena News