Lunedì 21 marzo Arwa Abu Haikal parteciperà alla rassegna, ormai alla sua terza edizione, per mostrare con le parole la vita quotidiana in una città divisa
di Maria Rosaria Greco*
Salerno, 18 marzo 2016, Nena News – Arwa è una donna libera e forte, nelle sue vene scorre il sangue degli Abu Haikal di Hebron. È con noi nella rassegna “Femminile palestinese”per raccontarci la sua storia, nel talk “Incontro con Arwa” (organizzato insieme a International Napoli Network) che si tiene il 21 marzo 2016 a Salerno. Il sottotitolo di questa terza edizione è “l’occupazione oggi” e Arwa ci porterà con sé, nella vita di tutti i giorni, fra quelle strade fantasma piene di checkpoint, in quelle scuole e case violate dai militari armati, in quella che forse più di tutte in Palestina è la città emblema dell’occupazione.
Arwa Abu Haikal è di Al Khalil, antica città araba oggi chiamata Hebron da Israele. Lei, sua madre Faryel e la sua famiglia difendono da decenni le loro case e la loro terra dagli attacchi dei coloni del vicino insediamento illegale di TelRumeida. Qui i coloni, protetti dai militari israeliani, sono famosi per essere particolarmente ultranazionalisti, fra i più pericolosiin Cisgiordania. Uno di loro tempo fa ferisce gravemente Arwacon un bastone di legno durante una delle tante aggressioni di massa. Come conseguenza la famiglia Abu Haikal viene condannata al pagamento di una multa di 1.500 shekel.A Hebron se sei arabo non hai diritti e non puoi essere vittima. Il paradosso è che qua gli oppressi devono pagare per l’aggressione subita dall’oppressore.
Le quattro case della famiglia sorgono sulla collinetta di TelRumeida, nel centro storico di Al Khalil, un tempo erano immerse fra gli alberi. Ora sono circondate da insediamenti ebraici da cui spesso partono spedizioni punitive contro la loro proprietà ormai rinchiusa fra recinzioni, filo spinato e avamposti militari. Incendi dolosi e minacce continue da parte dei coloni, pesanti multe inflitte come punizioni arbitrarie, perquisizioni violente da parte dei militari che entrano armati nelle loro case e picchiano uomini e donne, sono la “normale” vita quotidiana.
Qui siamo in area H2, controllata da Israele. Tutto inizia nell’aprile del 1968 quando il rabbino Moshe Levinger, con la scusa di trascorrere la Pasqua ebraica qui, arriva con un primo nucleo di coloni che si stabiliscono al Park Hotel, nel cuore di Hebron, per non andare mai più via e continuare progressivamente dal suo interno l’occupazione della città. Poi nel febbraio 1994 il colono BaruchGoldstein, un fanatico di origine americana,entra nella moschea e spara sui fedeli in preghiera, uccidendo 29 palestinesi. La strage subita, purtroppo, in questo luogo abbandonato dal diritto non è sufficiente per certificare chi è la vittima e chi è il carnefice. Così paradossalmente vengono puniti i palestinesi che assistono impotenti, con il protocollo di Hebron del 1997, alla divisione (che doveva essere provvisoria) della loro città in H1 e H2. Dopo 22 anni, in H2 vivono circa 600 coloni protetti da 2000/3000 militari israeliani. Prima della divisione, i palestinesi residenti nella Città Vecchia erano 10mila, dopo quella data con il tempo il 96% dei palestinesi ha abbandonato l’area.
È umanamente impossibile vivere in un luogo in cui i coloni, arrivati da varie parti del mondo con convinzioni fanatiche, occupano con la forza la tua casa che appartiene da secoli alla tua famiglia, in cui sei costretto a subire aggressionie umiliazioni giorno dopo giorno, in cui l’esercito israeliano chiude il tuo negozio arbitrariamente senza sapere fino a quando (come in Shuhada Street, che prima era il cuore economico della città ora è diventata una strada fantasma). I coloni possono tutto, si muovono in un regime di totale impunità in cui violenza e sopruso sui nativi palestinesi sono il linguaggio quotidiano. Però io penso sia ancora più umanamente impossibile far finta di niente, tacere di fronte a tutto questo dalle nostre comode postazioni occidentali.
La famiglia Abu Haikal resiste, rimane, nonostante tutto. L’esercito israeliano ha provato in tutti i modi a prendersi le loro case, sono state offerte cifre incredibili per convincerli a vendere e andare via. Ma niente ha smosso la loro ferma volontà di restare. Nel 2014, i coloni decidono di usare un’altra arma, chiedono l’approvazione di un’imponente progetto che viene finanziato e iniziano i lavori. Un grande parco archeologico ebraico sorgerà proprio dove c’erano i mandorli e gli ulivi della famiglia Abu Haikal. Si cercano importanti reperti ebraici, solo che nel febbraio 2014, viene scoperta una antica tomba musulmana costruita in pietra direttamente sulla roccia e orientata verso La Mecca. La tomba viene smantellata a dispetto di qualsiasi etica di tipo archeologico o religioso. Nessun diritto neppure per i morti qui a Hebron e nessun rispetto soprattutto per la memoria storica, che anzi va cancellata.
Ho visto da vicino questo scavo archeologico, che è proprio a ridosso della proprietà Abu Haikal tanto da spingere tempo fa Arwa e la madre Faryela contrapporsi per ore ai bulldozer che volevanoscavare via i loro alberi, la loro recinzione. Due donne apparentemente indifese, il loro corpo come unica arma, eppure tanto forti da determinare il blocco dello scavatore.
Quando guardai lo scavo archeologico, nel novembre 2014, rimasi colpita tra l’altro da un particolare: la manodopera era palestinese, come accade anche nelle colonie israeliane dove agli arabi toccano i lavori più umili, spesso senza assicurazioni e per quattro soldi. È l’umiliazione ulteriore dell’occupazione.
Ovviamente l’obiettivo chiaro è quello di eliminare, con il tempo, qualsiasi presenza palestinese: Israele vuole la terra senza i nativi dentro. La colonizzazione quindi avanza e l’archeologia è solo uno degli strumenti usati per cambiare di fatto lo status quo. Altri siti archeologici hanno la stessa funzione, accade per esempio a Gerusalemme con la Città di David che incombe sul quartiere arabo di Silwan. L’archeologia è un modo per sottrarre terra in zone strategiche. Hebron è particolarmente importante perché considerata dalla comunità ebraica la città dei patriarchi e per questo qui ci sono i coloni più intransigenti che purtroppo producono ragazzini violenti.
Anni fa la madre di Arwa insieme alla sua classe fu presa a sassate da ragazzini coloni. Faryel era la preside dell’istituto femminile, ora è in pensione, ed è sempre stata simbolo ed esempio di resistenza qui a TelRumeida. C’è un episodio famosissimo ripreso da un attivista internazionale che gira in rete e che è stato poi rivisitato in una serie tv britannica. Ragazzine israeliane, fra canti e inni da stadio, aspettano le loro coetanee palestinesi che escono da scuola e iniziano a insultarle, spintonarle. Il tutto sotto gli occhi dei militari israeliani che non alzano un dito. Faryel protegge le sue allieve con il suo corpo cercando di allontanarle dal pericolo, ma vengono assalite anche da ragazzini israeliani che lanciano loro sassi a distanza ravvicinata. Una fitta sassaiola arriva su queste ragazze spaventate che cercano di ripararsi il viso, la testa, mentre sanguinanti cercano di scappare. Questo significa vivere a Hebron.
Ma come la famiglia Abu Haikal ci sono altre famiglie che, con grande coraggio, decidono di rimanere anche se costrette a vivere sotto perenne assedio, intrappolate in una città paralizzata da oltre 120 checkpoint, da muri, barriere e pattuglie militari che limitano ai palestinesi tutto. Qui a Tel Rumeida ho conosciuto un’altra famiglia palestinese che resiste da anni alle violenze dei coloni e dei militari. Sono entrata nella casa del dottor Taiseer Zahdeh e di sua moglie Ibtisam HussienBlbesi per ascoltare la loro storia. La loro accoglienza è stata calorosa e totale come in tutte le case palestinesi, hanno diviso con noi il loro cibo e i loro sorrisi e hanno ricordato con grande dignità tutte le umiliazioni, le aggressioni, le minacce subite da tutta la famiglia.
Il dottor Zahdeh ha raccontato di aver avuto per mesi più di 40 soldati accampati sulla terrazza di casa, è stato arrestato, picchiato; lui, sua moglie e sua figlia. Ha raccontato le stesse violenze che sono costretti a subire tutti coloro che a Hebron decidono di non arrendersi, di non andare via. Ha infine spiegato di aver rifiutato tutte le offerte di un ufficiale israeliano che voleva comprare la sua casa ad ogni costo, fino a spegnere ogni proposta affermando con grande coraggio: “Il prezzo di questa casa è una pallottola”.
La famiglia Abu Haikal e la famiglia Zahdeh nonostante tutto resistono, mentre noi in Occidente non vediamo nulla, ignoriamo o semplicemente fingiamo di non vedere. È questo che io considero umanamente impossibile: il nostro colpevole silenzio.
Non si può più consentire questo silenzio, negli ultimi mesi la situazione è particolarmente incandescente in tutta la Palestina, ma soprattutto a Hebron. Islam,Hamam, Hadeel, Mohammed, Jasmine, Dania, sono solo alcuni dei nomi delle giovani vite sacrificate qui in una spirale di violenza iniziata lo scorso ottobre 2015. Nell’intero distretto di Hebron, secondo Issa Amro, fondatore dell’organizzazione nonviolenta Youth Against Settlements (Giovani contro gli insediamenti), le vittime palestinesi dall’inizio di ottobre sono più di 50. Spesso sono giovanissimi, giustiziati a vista dai militari in esecuzioni extragiudiziali, quasi sempre vengono lasciati morire dissanguati sulla strada. I militari li accusano di aggressioni, parlano di coltelli fra le loro mani, mentre molte fonti internazionali o palestinesi smentiscono.
Come conseguenza, vengono applicate sistematiche punizioni collettive, come la chiusura ciclica di alcune aree dichiarate “zona militare chiusa”, o del checkpoint di Shuhada Street (n. 56, che collega/divide l’area H2 con H1) dichiarato chiuso per “restauro”. Ma soprattutto sono state chiuse, ad oggi lo sono ancora, le due sedi di organizzazioni per i diritti umania Tel Rumeida: Youth Against Settlements e l’ISM (International Solidarity Movement), una Ong internazionale. Le due organizzazioni non violente monitoravano le violazioni dei diritti umani e civili, ora nell’area H2 non c’è nessuna forma di tutela e di supervisione.
Secondo il diritto internazionale le punizioni collettive sono illegali. L’articolo 33 della quarta Convenzione di Ginevra dichiara che “nessuna persona protetta può essere punita per un reato che lui o lei non ha commesso personalmente. Pene collettive, come pure qualsiasi misura d’intimidazione o di terrorismo sono proibiti”.
Arwa conosce bene tutto questo. Mi ha particolarmente colpito una sua frase con cui ha concluso una nostra chiacchierata in cui si parlava della vita quotidiana a Tel Rumeida: “Welcoming a new day with no explanation for what is going to happen. For us and our families – Diamo il benvenuto ad un nuovo giorno in cui non ci sono spiegazioni per quanto succederà. A noi e alle nostre famiglie”.Le sue parole mi hanno lasciato senza fiato. Sono insieme amare e di grande lucidità. Spiegano lo stato d’animo di chi, giorno dopo giorno, affronta l’occupazione militare in solitudine, nel silenzio della comunità internazionale, eppure dando il benvenuto a un nuovo giorno con grande forza e determinazione. In questa frase è racchiuso il radicamento profondo alla terra e l’appartenenza alla famiglia. Sono parole che trasudano energia e una grande forza: “resisteremo” sembra dire a tutte noi “Non andremo via”. E noi vogliamo stare con Arwa, con gli Abu Haikal, con tutte le donne e gli uomini che, pur vivendo a Hebron, sanno essere liberi dando il benvenuto a un nuovo giorno.
*Curatrice della Rassegna Femminile palestinese
Per informazioni:
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