Un ristorante della città palestinese è ancora oggi un luogo di accoglienza. Aperto per i poveri, in questo mese di Ramadan, prepara 6mila piatti al giorno per i meno abbienti. Tra questi la famosa zuppa di Abramo
di Fidaa Abu Hamdiyyeh
Hebron, 20 maggio 2020, Nena News – La zuppa del profeta Abramo شوربة سيدنا ابراهيم, è un semplice grano bollito che si mangia aggiungendo dello zucchero. Ad alcuni piace anche con un pochino di burro chiarificato. La leggenda dice che di notte gli angeli vengono a mescolare il grano sulle grandi pentole piene di grano messo a bagno prima della cottura che comincia al mattino e termina a mezzogiorno.
È tra i molti piatti che si preparano in questo ristorante storico di Hebron, ma non ha 100, 200, o 300 anni. Nel 1279 il sultano Qal’un Alsalhi ha costruito questo luogo per offrire cibo agli ospiti che arrivavano nella città palestinese, così da avere un luogo per riposare e per mangiare dopo un lungo viaggio.
Dopo anni e anni, nonostante il cambiamento dei mezzi di trasporto, viaggiare è diventato più facile e veloce, ma la cucina è rimasta aperta come un ristorante d’asporto che accoglie tutti, anche se il suo nome che viene dal persiano vuol dire un luogo di accoglimento dei poveri (in arabo تكية). Appena aperto si chiamava “alribat“, poi fu chiamato anche “altabalania” perché i lavoratori quando finivano la preparazione dei pasti suonavano i tamburi.
La distribuzione dei pasti non è riservata ai poveri o agli abitanti della città vecchia, il grano piace a tutti e molti sono convinti che abbia un sapore diverso da quello che si può preparare nelle proprie case credendo alla leggenda degli angeli.
Ovviamente il lavoro vero è quello fatto con le mani degli umani che tuttora mantengono la tradizione da generazioni, malgrado le restrizioni e le difficoltà provocate dai coloni che vivono nel centro della città di Hebron e che continuano a rendere la vita degli abitanti sempre più difficile, al punto che numerose famiglie hebronesi sono state costrette a lasciare le loro case.
Abituata a resistere e a sfidare gli ostacoli che mette l’uomo occupante, resiste anche davanti all’emergenza sanitaria che colpisce tutti: il ristorante apre con l’obiettivo di offrire più di 6mila pasti alle famiglie ogni giorno durante il mese del Ramadan.
Ho molti ricordi in quella parte della città, belli e brutti. Scarto i brutti e parlo dei momenti che preferisco ricordare, da ragazzina con i miei amici del quartiere Abusneneh, che è sulla collina che si affaccia alla moschea: dal tetto di casa ho sempre guardato quella struttura bella della moschea, ero orgogliosa e mi sentivo fortunata di poter vedere la moschea in ogni momento e di poter andarci ogni tanto (mamma permettendo).
Molte cose sono cambiate, sempre a causa dei coloni che vogliono appropriarsi di tutta la città vecchia. Anche l’ingresso della tkieh, una volta proprio davanti alla moschea, è raggiungile oggi solo facendo un giro lungo. Una volta erano due passi. Mio padre andava sempre alla moschea, anche quando stava male, il suo era un atto di resistenza. Diceva: “Non possiamo lasciare la moschea vuota, ce la sequestrano, quello che ci è rimasto dopo il massacro del 1994″.
Ho cercato anch’io di copiare mio padre, ci sono riuscita anche numerose volte, nonostante la lontananza geografica. Il legame è sempre forte con i miei luoghi dell’infanzia, mi dispiace molto di non aver mai fatto un selfie nei luoghi che adesso non posso più visitare, ma non ho nemmeno una foto. Allora il mio progetto dopo la mia ultima vacanza in Italia era di farmi un selfie nei luoghi a cui ancora un palestinese può accedere, perché forse un giorno non potrò più andarci visto i progetti di colonizzazione che vanno avanti anche in piena crisi sanitaria. Nena News