L’ultimo album del duo delle sorelle egiziane Marina e Mariam Samir, conosciute con il nome Elbouma, porta con sé un suono ricco e unificato, trattando con abilità una serie di argomenti, dalle spose bambine al razzismo
di Bahira Amin* Middle East Eye
*(Traduzione Valentina Timpani)
Roma, 4 ottobre 2021, Nena News – In alcune culture, le civette sono simboli di saggezza, di magia o di occulto. In Egitto, quest’uccello è fortemente associato all’idea di sfortuna, ostilità e donne lunatiche. Più comunemente, bouma – o civetta – è il modo beffardo con cui vengono chiamate le donne quando sono imbronciate, quando si lamentano o – Dio non voglia – quando sono femministe.
Indica la latente molestia sessuale in un’amata commedia egiziana, e “non fare la civetta” è una veloce risposta a tono nella tasca posteriore del patriarcato.
Il duo delle sorelle egiziane Marina e Mariam Samir, conosciute come Elbouma [Civetta], hanno trovato un’accezione di orgoglio in questa parola. “Le civette cacciano animali più grandi di loro”, dice Marina al Middle East Eye. “In quanto femministe, sento che facciamo lo stesso.
“Proviamo a combattere contro qualcosa che è molto più grande di noi, che ci circonda, che è radicato profondamente in tutto, incluse noi stesse”.
Lanciate nel 2014, inizialmente con il nome Bent El Masarwa, che in arabo significa “figlia degli egiziani”, l’album eponimo della band ha cercato di rappresentare la realtà e le difficoltà dell’essere donna in Egitto, e anche di aprire la porta alla produzione musicale femminista nel paese.
Negli ultimi quattro anni a partire dal 2017, e a seguito di diverse comparse nei media internazionali e una campagna di crowdfunding per finanziare l’album successivo, i membri della band sono cambiati, così come è cambiato l’approccio di Mariam e Marina alla produzione musicale femminista, spingendo il rebrand nella direzione di ElBouma.
Il nuovo album, Mazghuna, è una storia potente divisa in nove tracce. Le idee, i temi e i testi sono venuti fuori da tre workshop di storytelling dedicati alle donne nell’Alto Egitto.
Il titolo stesso dell’album è basato sull’antico nome del paese dove le ElBouma hanno tenuto il primo workshop di storytelling, Abu Gheir a Minya, città dell’Alto Egitto. Secondo le partecipanti del workshop, il nome è anche un riferimento alla parola mazghuda, cioè una donna che è stata costretta al silenzio.
Il risultato è un album ricco con un suono unificato, ma che ha l’abilità di ricoprire una serie di argomenti, dalle spose bambine al razzismo al potere dei circoli delle donne, senza che questi risultino contrastanti.
Mutilazioni genitali femminili e altre lotte femministe
Sballottate tra quello che è stato definito un “momento #MeToo raffazzonato”, alcuni tentativi di limitare ulteriormente i diritti legali delle donne, e quella che sembra essere un’infinita lotta sui social media per un mucchio di richieste compresa la giustizia per le sopravvissute a violenze sessuali, le femministe egiziane non hanno spesso l’opportunità di godere di qualcosa di così radioso – e di tale supporto – come un album come Mazghuna, a loro dedicato.
Alcuni dei temi sono lotte femministe comuni, comprese le mutilazioni genitali femminili, a cui sono state sottoposte l’87 per cento delle donne egiziane tra i 15 e i 49 anni, secondo i dati più recenti dell’Indagine Demografica e Sanitaria d’Egitto del 2014.
Ma anche questa pratica straziante è affrontata con una sfumatura fresca nella terza traccia dell’album, Astek Ya Astek (Elastica, Oh Elastica). Affiancando una melodia spensierata a un testo grottesco, la canzone descrive non solo la violenza di questa pratica pseudo medica, ma anche il modo in cui gli effetti restano nella psiche e nel corpo della donna.
La canzone presenta diversi livelli di parodia:
Prendi i bisturi e taglia
E lascia che il sangue rosso goccioli
su un pezzo di stoffa bianca.
Oh madre della “pura” ragazza circoncisa,
spegni le candele dieci volte,
dagli caffè invece che sharbat.
Anche se forse non è così riconoscibilmente femminista come Astek Ya Astek, una delle tracce più toccanti dell’album è Al Barr (Sulla riva), che esplora un tipo di conversazione comune ma spesso spiacevole.
Costruita attorno alla metafora di alcuni marinai bloccati sulla riva, questa canzone strappalacrime esplora le relazioni tra madri e figlie in Egitto. Riconosce le madri sia in quanto vittime dei costumi sociali che in quanto responsabili della loro conservazione, prigioniere loro stesse e guardie carcerarie delle figlie, la barca che porta un peso sul mare e l’ancora che la tiene ferma a riva. Ma la canzone non può rispondere a quello che viene dopo: perdono, ribellione o un’inquieta rassegnazione allo stato delle cose.
Ogni canzone è accompagnata da un’illustrazione sulla copertina fatta dall’artista egiziana Aliaa Ali. Nella palette verde, arancione e fucsia, distintiva dell’album, le otto opere d’arte sono dinamici complementari alla musica.
Nell’illustrazione di Al Barr, una ragazza si allunga verso il cielo, un piede legato con un lucchetto, mentre l’altro è bloccato nel pantano della madre, che a sua volta viene contenuta dentro sua madre. Tutte e tre le donne sono sia tenute giù da un peso che nell’atto di sollevarsi, ognuna con un lucchetto a forma di cuore che gli pende dal corpo.
Un suono con profonde radici egiziane
La facilità con cui l’album si muove tra animi diversi è dovuta all’approccio di Mariam Samir e del produttore Ramy al-Majdoub alla musica, che sfida una facile categorizzazione. L’album è profondamente immerso nel folklore, sia sul piano dei suoni che su quello del testo.
Canzoni come Ya Arousa (Oh, sposa) e Astek Ya Astek (Elastica, o elastica) – che discutono rispettivamente il matrimonio infantile e le mutilazioni genitali femminili – sono riprese direttamente da canzoni tradizionali egiziane.
Eppure il suono vira anche nell’elettronica, l’ambient, la shaabi, fino allo spoken word.
I testi, delle cantautrici Esraa Saleh e Marina Samir, e della partecipante al workshop Marwa Hassan, sono fortemente simbolici, vengono nominate le rive del Nilo, marinai sull’acqua, le radici delle palme, gelsomini su un filo.
Ritraggono immagini che sono radicate nella cultura egiziana, senza apparire claustrofobicamente specifiche.
In alcune tracce, la cantante, che sia Mariam o Marina, canta da sola. In altre, sentiamo un coro di donne che canticchiano o cantano all’unisono, in un effetto ipnotizzante. Kont Fakra (Avevo pensato), scritta da Marwa Hassan, che ha partecipato al workshop di Aswan, parla del razzismo che le donne di Aswan (che hanno tendenzialmente la pelle più scura) affrontano quando si avventurano fuori la loro città.
“Pensavo di essere libera”, canta un coro di donne, e sembra come se un microfono sia stata messo al centro del circolo di storytelling.
L’ascoltatore viene portato all’interno del messaggio cifrato, circondato dalla recitazione incantevole con la voce soprano da brivido, di formazione classica, di Mariam in sottofondo.
(La seconda parte sarà pubblicata domani qui)