E’ la prima incursione turca in territorio iracheno dal 2008. Ieri il premier turco Davutoglu aveva dichiarato che “l’obiettivo di Ankara è ripristinare l’ordine pubblico in ogni angolo della Turchia”. Attacchi in diverse città turche contro sedi del partito di sinistra filo curdo (Hdp)
AGGIORNAMENTO ORE 15:15 Militari turchi entrano nel nord dell’Iraq
Forze speciali turche sono entrate poco fa nel nord dell’Iraq nel tentativo di catturare i combattenti del Pkk dopo l’ennesimo attacco alle forze di sicurezza turche compiuto dai miliziani curdi oggi. A riferirlo è l’agenzia di stampa Dogan. La notizia è stata confermata da una fonte governativa che ha parlato all’Afp.
L’incursione – la prima in territorio iracheno dal 2008 – rappresenta un escalation delle violenze tra i militari di Ankara e il Pkk. 14 poliziotti sono stati uccisi stamane in un attentato su un minibus che viaggiava verso Dilucu (al confine con l’Azerbaijaan). L’attacco, secondo quanto riferisce la stampa locale, sarebbe stato rivendicato dai combattenti curdi. Domenica 16 soldati erano stati uccisi in un attacco bomba a Daglica (nella regione sud orientale di Hakkari) sempre dal partito curdo dei lavoratori del Kurdistan.
AGGIORNAMENTO ORE 13:30 Attacco Pkk a poliziotti turchi: 14 morti. 40 combattenti curdi uccisi nel nord dell’Iraq dai jet di Ankara
14 poliziotti turchi sono morti in un attacco bomba su un minibus compiuto dal Pkk. Ad affermarlo è l’agenzia di stampa turca Anadolu. L’attacco è avvenuto nei pressi della città di Hasanhan (a confine tra Iran e Armenia). I due poliziotti feriti sono stati portati all’ospedale Igdir.
Decine di aerei militari turchi (40 secondo due ufficiali governativi citati dalla stampa locale) hanno invece colpito basi operative del Pkk nel nord dell’Iraq uccidendo almeno 40 combattenti.
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di Roberto Prinzi
Roma, 8 settembre 2015, Nena News – “La Turchia sarà ripulita dai terroristi. Non importa cosa accadrà”. Parola del premier turco Ahmet Davutoglu. Commentando ieri da Ankara l’attacco compiuto domenica scorsa da alcuni membri del partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) nella provincia sud orientale di Hakkari, il primo ministro ha promesso che “le montagne, le pianure, gli altopiani e le città di questo Paese non saranno lasciati ai terroristi [del Pkk]”. Il delfino del presidente Erdogan ha provato a tranquillizzare l’opinione pubblica affermando che l’esercito sta pattugliando attentamente la strada da Daglica a Yuksekova luogo dell’attacco bomba di due giorni fa in cui hanno perso la vita 16 soldati di Ankara.
Senza troppi fronzoli, Davutoglu ha poi piegato quale è il piano che ha in mente il governo: “l’obiettivo [nostro] è chiaro: ristabilire l’ordine pubbico e il legittimo controllo delle [nostre] forze di sicurezza in ogni angolo e centimetro della Turchia”. Il premier ha rivelato che sin dal 24 luglio – da quando cioè il suo Paese ha lanciato la campagna aerea contro i combattenti del Pkk – le forze armate hanno avuto l’ordine di “completare l’eliminazione delle organizzazioni terroristiche a prescindere da dove esse siano e da chi le alimenta”. L’attentato a Daglica è stato solo l’ultimo sanguinoso attacco compiuto dai combattenti del Partito dei lavoratori del Kurdistan i quali, da quando è terminata la fragile tregua con Ankara lo scorso luglio, hanno ucciso più di 90 membri delle forze armate di Ankara. Imprecisato, però, resta l’elevato numero di civili e di membri del Pkk uccisi dal governo turco nelle sue opere di “pulizia” all’interno del Paese e sui monti Qandil in Iraq. Una situazione fattasi rovente tra le due parti soprattutto a causa dei rapporti (neanche troppo sottombanco) che Ankara ha intrattenuto (e tuttora ha) con i jihadisti dello Stato Islamico (Is) che hanno trovato nel governo islamista di Erdogan (prima) e Davutoglu (poi) un fedele partner per devastare la Siria e occuparne larghe porzioni di territorio.
Che i jihadisti di Abu Bakr al-Baghdadi facciano meno paura ad Ankara dei combattenti del Pkk è cosa nota ribadita. A chi fosse sfuggito questo dettaglio negli ultimi mesi, non ha di che preoccuparsi: ieri Erdogan ha tenuto a sottolinearlo di nuovo. Intervistato dall’americana Cnn, il “sultano” ha detto infatti che “il Pkk rappresenta una minaccia primaria [per noi] mentre l’Is è solo secondaria”. Il presidente turco ha poi attaccato l’Europa per la sua ambiguità nei confronti del partito di Ocalan. “Sebbene infatti gli europei designino il Pkk come una organizzazione terroristica – ha dichiarato – hanno sempre chiuso un occhio verso i membri di questa organizzazione terroristica dando loro protezione”. Ciononostante, ha provato a rassicurare gli spettatori dicendo che la “questione curda” sarà risolta attraverso “canali diplomatici” e con una non meglio precisata “maggiore democrazia”.
Parole che risultano difficili da credere. Il cosidetto “processo di pace” tra curdi e turchi era stato lanciato nel 2012 dall’allora premier Erdogan e dal leader curdo Ocalan detenuto dal 1999 in una prigione di massima sicurezza sull’isola turca di Imrali. Il fragile cessate il fuoco che regnava (con scaramucce di tanto in tanto) tra le due parti è terminato però definitivamente il 22 luglio scorso quando il Pkk ha assassinato due ufficiali di polizia. L’attacco aveva fatto seguito all’attentato compiuto il giorno prima dall’Is nella cittadina di Suruc in cui venivano uccise 34 persone (più di 100 i feriti) che partecipavano ad un evento in solidarietà con la città siro-curda di Kobane. Il Pkk attribuì i fallimenti della sicurezza al partito del premier Davutoglu e decise, di conseguenza, di porre fine al moribondo (e mai nato in realtà) processo di pace. Sono circa 40.000 le persone morte negli scontri tra Pkk e governo centrale a partire dal 1984 da quando cioè il gruppo marxista-leninista ha compiuto i primi attacchi contro le forze di sicurezza turche.
Le dichiarazioni anti-curde di Davutoglu e Erdogan hanno continuato ad avvelenare un clima politico già di per sé tesissimo da mesi e fattosi incandescente domenica dopo l’attacco mortale ai soldati di Ankara. E così dalle parole del primo ministro e del presidente, alcuni nazionalisti hanno pensato bene di passare ai fatti. Ieri decine di uffici che appartengono al partito di sinistra filo curdo dell’Hdp (Partito democratico del popolo) sono stati attaccati in diverse località turche. A Nigde un gruppo di quasi 500 manifestanti, riunitosi a Piazza Cumhuriyet, ha attaccato la sede locale dell’Hdp con pietre. Alcuni manifestanti si sono poi arrampicati sulla finestra dell’ufficio del partito rompendone la targa. Episodi simili si sono verificati anche a Manavgat, Antalya, Mersin, Sakarya, Çorlu e Kayseri.
Una situazione che era stata ampiamente prevista dal direttivo dell’Hdp (Myk) che da tempo lancia allarmi (per lo più inascoltati dalle altre forze politiche) sul rischio per il Paese di scivolare verso il disastro e che perciò, nel tentativo di scongiurare un tale scenario, invoca un immediato cessate il fuoco e la ripresa dei negoziati di pace. L’Myk del partito ha provato ieri a fare il pompiere affermando che “entrambe le parti del conflitto – le forze di sicurezze e il Pkk – devono allontanere il dito dal grilletto e devono giungere ad un cessate il fuoco in una atmosfera di dialogo necessaria per compiere le negozziazioni”.
A provare a calmare gli animi è stato anche il copresidente dell’Hdp Selahattin Demirtash che, dopo aver appreso dell’attacco di Daglica, aveva preferito cancellare un evento programmato in Germania e ritornare in Turchia. “Non c’è alcuna giustificazione quando si uccide o si conduce alla morte il nostro popolo. Le campane a lutto che ci sconvolgono non possono essere il nostro destino”.
Intanto, secondo quanto riferisce il quotidiano locale Hurryiet, ieri il governo turco ha annunciato che ricostruirà nove moschee danneggiate durante l’offensiva militare israeliana nella Striscia di Gaza dell’estate del 2014. Ma se Ankara strizza l’occhio agli islamisti di Hamas, continua a dialogare anche con il “nemico” Israele. La scorsa settimana una delegazione turca si è incontrata a Tel Aviv con il vice ministro della cooperazione regionale israeliano Ayoub Kara del partito di destra di governo (Likud) per avanzare una proposta di costruzione di una zona industriale vicino Jenin (Cisgiordania). Il piano dovrebbe coprire un’area di 1.300 acri e, sostenuto economicamente da Israele, Usa e Unione Europea, permetterà l’esportazione senza costi negli Usa di beni prodotti in loco. Nena News
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