La seconda parte della ricerca effettuata da Salman Abu Sitta e Terry Rempel negli archivi della Croce Rossa, ricostruiti gli anni dopo il 1948.
- Mappa dei campi di lavoro forzato ( Fonte Salman Abu Sitta, Palestine land society al-Saadi – al-Akhbar
di Yazan al-Saadi – al-Akhbar
Roma, 1 ottobre 2014, Nena News – Come osserva il rapporto, “non ci sono dati precisi sul numero totale di civili palestinesi detenuti da Israele durante la guerra del 1948-49″ e le stime tendono a non tenere conto di campi “non ufficiali”, oltre al movimento frequente di prigionieri tra i campi in uso. Nei quattro campi “ufficiali” il numero dei prigionieri palestinesi non ha mai superato le 5 mila unità secondo i dati dei documenti israeliani.
Prendendo come riferimento la capacità di Umm Khalid e le stime dei “campi non ufficiali”, il numero finale di prigionieri palestinesi potrebbe salire intorno alle 7 unità, e forse molte di più, come afferma lo studio, se si tiene conto del diario di ingresso compilato il 17 novembre 1948 da David Ben Gurion, uno dei principali leader sionisti e primo ministro di Israele, che afferma “l’esistenza di 9 mila prigionieri di guerra nei campi gestiti dagli israeliani”.
In generale, le condizioni di vita nei campi “ufficiali” erano di gran lunga inferiori a quello che sarebbe stato considerato appropriato dal diritto internazionale in quel momento. Moeri, che ha visitato i campi di continuo, ha riferito che a Ijlil nel novembre 1948: “molte delle tende sono strappate, il che significa che il campo “non è pronto per l’inverno,” le latrine non sono coperte e la mensa è ferma da due settimane. Riferendosi a una situazione apparentemente in corso, ha affermato che “la frutta è ancora guasta, la carne è di scarsa qualità e le verdure scarseggiano”.
Inoltre, Moeri ha riferito di aver visto “‘le ferite lasciate dagli abusi della settimana precedente, quando le guardie avevano sparato sui prigionieri, ferendone uno, e ne avevano picchiato un altro”.
Come mostra di studio, lo stato civile della maggioranza dei detenuti era chiaro ai delegati della CRI nel paese, che hanno riferito che gli uomini catturati “senza dubbio non erano mai stati in un esercito regolare”. I detenuti che erano combattenti, spiega lo studio, venivano “regolarmente uccisi con la scusa che stavano tentando di fuggire”.
Le forze israeliane sembravano prendere di mira sempre uomini validi, lasciando da parte di donne, bambini e anziani – quando non li massacravano – e la politica continuò anche dopo che vi erano bassi livelli di confronto militare. Tutto sommato, come mostrano i registri israeliani e come cita lo studio “la stragrande maggioranza (82 per cento) dei 5950 indicati come internati nei campi di prigionia erano civili palestinesi, mentre i palestinesi in generale (civili e militari) formavano l’85 per cento dei detenuti”.
Il rapimento in larga scala e la detenzione di civili palestinesi tendono a corrispondere con le campagne militari israeliane. Ad esempio, uno dei primi grandi rastrellamenti si è verificato durante l’Operazione Danj, quando 60-70 mila palestinesi furono espulsi dalle città centrali di Lydda e Ramleh. Allo stesso tempo, tra un quinto e un quarto della popolazione maschile di queste due città al di sopra dei 15 anni era stato inviato nei campi.
La più grande retata di civili proveniva dai villaggi della Galilea centrale, catturata durante l’Operazione Hiram nell’autunno del 1948.
Un sopravvissuto palestinese, Moussa, ha descritto agli autori ciò che ha assistito al momento: “Ci hanno rastrellati da tutti i villaggi intorno a noi: al-Bi’na, Deir al-Asad, Nahaf, al-Rama, e Eilabun. Hanno preso 4 giovani uomini e li hanno uccisi … Ci hanno condotti a piedi. Faceva caldo. Non ci era permesso bere. Ci hanno portati a [il villaggio palestinese druso, ndr] al-Maghar, poi a [ l’insediamento ebraico, ndr] Nahalal, poi ad Atlit”.
A 16 Novembre 1948 rapporto delle Nazioni Unite ha confermato il racconto di Moussa, affermando che circa 500 uomini palestinesi “sono stati fatti marciare a forza e trasferiti in un campo di concentramento ebraico a Nahlal”.
MANTENERE L’ECONOMIA DI ISRAELE “CON LA SCHIAVITÙ”
La politica di prendere di mira i civili, in particolare uomini “abili”, non era accidentale. Come afferma lo studio, “con decine di migliaia di uomini e donne ebrei chiamati per il servizio militare, gli internati civili palestinesi costituivano un importante complemento al lavoro civile ebraico impiegato ai sensi della legislazione di emergenza nel mantenere l’economia israeliana”, che anche la delegazione della CRI aveva notato nelle proprie relazioni.
I prigionieri erano costretti a fare lavoro pubblico e militare – come essiccare le zone umide – a lavorare come servi nella raccolta e nel trasporto delle proprietà saccheggiate ai rifugiati – spostando pietre demolite di case palestinesi – a pavimentare le strade, scavare trincee militari, seppellire i morti e molto altro.
Come un ex detenuto palestinese di nome Habib Mohammed Ali Jarada ha descritto nello studio, “a mano armata mi facevano lavorare tutto il giorno. Di notte, dormivamo in tenda. In inverno, l’acqua filtrava sotto i nostri giacigli, composti da foglie secche, cartoni e pezzi di legno”.
Un altro prigioniero in Umm Khalid, Marwan al-Iqab Yehiya ha detto in un’intervista con gli autori: “Dovevamo tagliare e trasportare le pietre [in una cava] tutto il giorno. Il nostro cibo quotidiano era solo una patata al mattino e mezzo pesce essiccato durante la notte. Picchiavano chiunque disobbedisse agli ordini”. Il lavoro veniva inframmezzato da atti di umiliazione da parte guardie israeliane: Yehiya parla di prigionieri “allineati e fatti spogliare come punizione per la fuga dei due prigionieri di notte”.
“[Ebrei] adulti e bambini venivano dal kibbutz vicino a guardarci in fila nudi e ridevano. Per noi – ha aggiunto – questa è stata la cosa più degradante”.
Abusi da parte delle guardie israeliane erano sistematici e diffusi nei campi, diretti verso paesani, contadini e la classe palestinese più bassa. Questo si è verificato, dice lo studio, perché i detenuti istruiti “conoscevano i loro diritti e avevano la coscienza necessaria per discutere e resistere ai loro carcerieri.”
Una cosa interessante notare dallo studio, inoltre, è come le affiliazioni ideologiche tra i detenuti e le loro guardie avevano altri effetti in termini di rapporto tra di loro.
Citando la testimonianza di Kamal Ghattas, che è stato catturato durante l’attacco israeliano in Galilea:
“Abbiamo avuto un litigio con i nostri carcerieri. Quattrocento di noi di fronte a 100 soldati. Hanno portato i rinforzi. Io e tre dei miei amici siamo stati portati in una cella. Hanno minacciato di spararci. Tutta la notte abbiamo cantato l’inno comunista. Ci hanno portato tutti e quattro al campo di Umm Khaled. Gli israeliani avevano paura della propria immagine in Europa. Il nostro contatto con il nostro Comitato Centrale e Mapam [Partito socialista israeliano] ci ha salvati. … Ho incontrato un ufficiale russo e gli ho detto ci avevano portato via dalle nostre case anche se eravamo civili, cosa che era contro le Convenzioni di Ginevra. Quando ha saputo che ero un comunista mi abbracciò e disse: “Compagno, ho due fratelli nell’Armata Rossa. Viva Stalin. Lunga vita alla Madre Russia”.
Eppure, i palestinesi meno fortunati facevano fronte ad atti di violenza che comprendevano le esecuzioni arbitrarie e le torture, senza ricorso. Le esecuzioni sono state sempre spacciate come arresto dei “tentativi di fuga” – reali o rivendicati dalle guardie.
Era diventato così comune che un ex detenuto palestinese di Tel Litwinsky, Tewfic Ahmed Jum’a Ghanim ha raccontato: “Chiunque rifiutava di lavoro veniva fucilato. Dicevano che [la persona] aveva tentato di fuggire. Quelli di noi che pensavano [che] stavano per essere uccisi camminavano all’indietro di fronte alle guardie”.
In definitiva, entro la fine del 1949, i prigionieri palestinesi vennero gradualmente rilasciati dopo forti pressioni da parte della CRI e delle altre organizzazioni, ma i rilasci erano limitati in scala e molto concentrati su casi specifici. I prigionieri degli eserciti arabi vennero rilasciati durante gli scambi di prigionieri, mentre i detenuti palestinesi vennero unilateralmente espulsi attraverso la linea di armistizio senza cibo, forniture, o riparo: gli venne detto di camminare in lontananza e di non tornare mai più.
Questo non sarebbe successo fino al 1955, quando la maggior parte dei prigionieri civili palestinesi venne finalmente rilasciata.
L’importanza di questo studio è multiforme. Non solo rivela le numerose violazioni del diritto internazionale e le convenzioni dell’epoca, come i Regolamenti dell’Aia del 1907 e le Convenzioni di Ginevra del 1929, ma mostra anche come l’evento ha plasmato la CRI a lungo raggio.
Poiché la CRI ha dovuto affrontare un attore israeliano belligerante che non era disposto ad ascoltare e conformarsi alle leggi e alle convenzioni internazionali, la CRI si è dovuta adattare a ciò che considerava fossero metodi pratici per contribuire a garantire ai prigionieri civili palestinesi protezione al minimo dei loro diritti.
Nella sua relazione finale, lo studio cita de Reynier:
“La CRI ha protestato in numerose occasioni affermando il diritto di questi civili a godere della loro libertà se non trovati colpevoli e giudicati da un tribunale. Ma abbiamo tacitamente accettato il loro status di prigionieri di guerra, perché in questo modo essi godono dei diritti conferiti loro dalla convenzione. In caso contrario, se non fossero stati nei campi sarebbero stati espulsi [verso un paese arabo], e in un modo o nell’altro, avrebbero condotto senza risorse la vita miserabile dei rifugiati”.
Alla fine, la CRI e le altre organizzazioni erano semplicemente inefficaci, dal momento che Israele ha ignorato le sue condanne impunemente, oltre ad avere la copertura diplomatica delle grandi potenze occidentali.
Ancora più importante, lo studio getta più luce sulla portata dei crimini israeliani durante la sua nascita brutale e sanguinosa. E “rimane ancora molto da raccontare”, come è scritto sulla riga finale dello studio.
“E ‘sorprendente per me, e per molti europei che hanno visto il mio studio”, ha detto Abu Sitta, “che i campi di lavoro forzato siano stati aperti in Palestina tre anni dopo essere stati chiusi in Germania, e sono stati gestiti da ex prigionieri: ci sono state guardie ebree tedesche. Questo è un cattivo riflesso dello spirito umano, dove l’oppresso copia l’oppressore contro vite innocenti”.
Lo studio mostra essenzialmente i fondamenti e le origini della politica israeliana nei confronti dei civili palestinesi che si presenta sotto forma di sequestro, arresto e detenzione. Questi crimini continuano fino a oggi. Basta limitarsi a leggere le relazioni sulle centinaia di palestinesi arrestati prima, durante e dopo la recente guerra di Israele contro Gaza di quest’anno.
“Oggi Gaza – conclude Abu Sitta – è un campo di concentramento, non diverso rispetto al passato”. Nena News
Traduzione a cura della redazione di Nena News