Nella scultura e nella pittura l’artista iraniano ammette canoni locali e globali che imprimono alle sue opere richiami semantici e iconografici a forme e pratiche visive che si distanziano dalla dimensione più conservatrice presente in Iran
di Cecilia D’Abrosca
Roma, 6 febbraio 2017, Nena News – Diaspora, deriva dalla parola greca διασπορά che tradotta, significa, dispersione, indicando con essa, la condizione di alcuni popoli che, costretti ad abbandonare il luogo in cui sono nati, si disseminano in varie parti del mondo, ridefinendo la propria vita.
La qualifica di, genere diasporico, si applica, nei tempi moderni, alla Letteratura, alla Poesia, alle Arti, e, più in generale, a quelle discipline, come la danza, nello specifico, il Tango, fino a comprendere l’insieme di ciò che vive della parola, dell’immagine, del corpo in movimento. Scegliere di instaurare un dialogo con e sull’arte, lungo una traiettoria “diasporica”, implica il dover riformulare il ruolo assegnato ai suoi autori, noti come “artisti che svaniscono” o “artisti del trapezio” – per i quali, le condizioni di vita e, di appartenenza ad un Altrove (che non sia la propria terra), restituiscono poetiche di rappresentazione visive, rivestite del carattere di unicità.
I contesti espressivi, che hanno come sfondo artisti diasporici, spingono ad enfatizzare l’identità (concetto delle scienze etnoantropologiche e della sociologia), che necessita di tempo per delinearsi e maturare, che, nell’individuo, è definita dalla reazione soggettiva ai cambiamenti, interni ed esterni, che ciascuno sperimenta su di sé; da questo, deriva l’assunzione che, l’identità non è un qualcosa di precostituito, né un dato oggettivo, ma va inscritta e, compresa, all’interno di un processo in divenire, che accompagna la vita nella sua interezza, fino al suo compimento.
Il tratto delle opere, cui danno vita gli artisti diasporici, è, in primo luogo, disciplinato dalla condizione personale dei suoi autori. Il confronto avviene lungo forme artistiche che provano a ricostruire il senso di appartenenza, attraverso un’arte che, ne mette in scena sia il senso della perdita, sia il tentativo di superamento dello stato, attraverso diversi momenti dell’esperienza di fruizione dell’opera. L’arte diasporica tira fuori i desideri più profondi del suo osservatore per poi ingoiarli. Ciò è reso possibile della sua natura, dalla profondità poetica del suo messaggio, dalla sua rilevanza storica e politica, che sbaraglia il retroscena traumatico di base.
Il successo di un artista, che tenta di raccontare gli effetti della diaspora, dipende meno dal soggetto dei suoi lavori che, dall’accessibilità ad essi: è essenziale, per il fruitore dell’arte diasporica, conoscere il canale e la modalità con la quale reperire l’opera che lo coinvolge. È decisivo, in termini di, conquista della popolarità dell’arte della diaspora, informare circa i luoghi di fruizione ad essa dedicati. Ma vi è una condizione che l’arte diasporica deve soddisfare, ovvero, l’assenza di complessità nei significati che ricopre, lasciando al pubblico ampie sfere di libertà interpretative. L’esperienza alla quale l’opera d’arte invita, per mezzo dei sensi, dev’essere immediata per ogni tipo di osservatore. Le allusioni, che l’arte incarna, alla biografia dell’artista, agli eventi che lo riguardano, al pensiero filosofico che sta alla base della sua formazione teorica, formano le tematiche diasporiche contemporanee.
Tra gli artisti che portano avanti questo genere, legando sperimentazione e implementazione, va citato Parviz Tanavoli, scultore iraniano talentuoso. Nel 1971, poco più che trentenne, gli viene commissionata, dalla Regina dell’Iran, un’opera per il Palazzo dello Shah di Persia. È sua l’idea di scolpire una grandiosa scultura in bronzo, che compone la parola Heech, il cui significato, in lingua Farsi, è “Niente”. L’opera ha carattere tridimensionale ed è composta da tre caratteri della lingua persiana, che combinati creano Heech.
L’artista della diaspora è mosso dal desiderio di parlare, sostenere, e/o estendere l’immaginario culturale associato alla sua patria. L’arte, dunque, reclama la sua funzione rappresentativa (e informativa), ma necessita l’introduzione di una categoria interpretativa, efficace, che riempia di senso l’espressione, opera d’arte diasporica, pensata ed elaborata come, la profonda attrazione verso i piaceri della mente, ricreati grazie ad un “dispositivo sostitutivo” del senso di appartenenza, dato dall’arte in sé.
Parziv Tanavoli lascia l’Iran per viaggiare in America e in Europa, dove completa la sua formazione, studiando a Milano e laureandosi in Fine Arts nel 1959. Nella città italiana, avviene il suo primo incontro con l’Altrove, Elsewhere, a seguito del quale, prende avvio la sua modalità espressività connessa ai fondamentali principi teorici. Nella scultura e nella pittura, le arti alle quali si dedica in modo intenso, ammette canoni locali e globali, in quanto preferisce non relegarsi alla funzione di “scultore di bronzi decorativi”, ma imprimere, alle sue opere, richiami semantici e iconografici a forme e pratiche visive che si distanzino dalla dimensione più conservatrice e viva in Iran.
La veemenza, con la quale sostiene il fondamento teorico dell’arte, lo motiva a lavorare, al fianco di altri colleghi, all’ideazione di un Movimento che poggi su una comune visione estetica, il Saqqakaneh: espressione e manifestazione del modernismo iraniano. La nascita del Saqqakaneh si collega al nome di Parviz Tanavoli e di molti altri, tra cui Faramarz Pilaram (1938-1983) che, dopo essersi laureato alla Facoltà di Arti Decorative in Iran, negli anni Sessanta, dirige il suo lavoro e la sua ricerca sui i temi legati al mito, in relazione al patrimonio artistico iraniano.
L’artista diasporico, si fa promotore di una sorta di discorso collettivo di forte incisività, specie se, compreso per ciò che rappresenta un’opera d’arte che emerge, in primis, fuori dallo spazio di conflitto dei desideri individuali e, che va disgiunta da ogni connotazione spaziale: l’Altrove, che l’artista si impegna a ritrovare, non può connettersi ad una reale posizione geografica; ossia, non richiama una area territoriale delimitata, bensì un luogo immaginario, un approdo per l’arte (diasporica).
L’incidenza del messaggio politico, veicolato dalle opere, non ha a che fare, in maniera decisiva, con la modalità della rappresentazione artistica, piuttosto, con i sentimenti suscitati nel pubblico dalle emozioni rappresentate dalla narrazione visiva (ossia, dal racconto attraverso le immagini che prende forma nell’opera) e, con lo sforzo di rifondere il quotidiano all’interno delle strutture mitiche che si rivolgono ai desideri universali: interrogandoli, interpretandoli e trasformandoli nei protagonisti dell’arte. Nena News