Ultimo lavoro del regista Jamal Aljafari è “Recollection” che stravolge la struttura narrativa classica adoperata nel cinema: i protagonisti sono i palestinesi (quelli che riempiono il “backstage”), la storia la raccontano i palestinesi
di Cecilia D’Abrosca
Roma, 30 gennaio 2017, Nena News – In Recollection, ultimo lavoro di Kamal Aljafari, la libertà è un sentimento sperimentato ed espresso dall’autore cinematografico attraverso un immaginario fatto di musiche e figure che vanno dal rumore dell’Oceano al suo eco fino ai contorni disegnati dalle onde; quasi a voler suggerire che la vita si generi e sia racchiusa in tutto questo.
In modo graduale ci si confronta con la storia, con quanto è avvenuto, con la distruzione. Ed ecco che, le articolate figure si delineano in modo lento, fino a raggiungere le dimensioni di un’ombra, quella del porto di Jaffa. Si cominciano ad intravedere i resti, paragonabili a corpi che ancora respirano; si scorgono i luoghi dove i palestinesi hanno vissuto e, dai quali, sono stati condotti/spinti in esilio. L’esperienza visuale e sinfonica, creata dal regista palestinese coltiva la memoria, indaga la violenza, contempla la fissità dei fatti, mostrando il volto dell’occupazione e la maniera in cui questa, spesso, è oggetto di modificazioni di senso.
Il lavoro finale di Kamal, è stato preceduto dalla visione di film israeliani prodotti dal 1960 al 1990, la maggior parte dei quali esclude i palestinesi che, dice, continuano ad essere “sradicati nella realtà e nella finzione” e usati dalla cinematografia israeliana poiché in grado di creare una narrativa e dunque una storia.
In Recollection non figurano attori israeliani, al contrario, Kamal dà spazio alle persone che compaiono in fase di lavorazione, nel backstage, ossia i palestinesi, capovolgendo la struttura classica. Le sequenze spingono ad interrogarsi su cosa tormenti un uomo senza paese, costretto a riposizionarsi nel mondo.
Kamal Aljafari nasce ad al-Ramla e cresce a Jaffa, città che lo spinge all’arte e alla riflessione; Recollection, opera dalla forma innovativa, nata dall’idea di guardare all’ impegno politico in modo personale, nasce in questo contesto. Aljafari sfida la percezione umana, trasportando il pubblico in una dimensione poetica che poggia su un linguaggio cinematografico costruito sull’alfabeto del mare e delle sue rovine, laddove il silenzio è tempesta e soliloquio, l’immobilità scolpisce l’alternarsi di spostamento e esilio, memoria e cuore. Intanto che, le immagini distinguono tra “vedere” ed “essere visto.”
Kamal è uno dei “fantasmi” della Palestina che, tenta di far sì che la propria voce sia udita e funzioni per rappresentare la sua gente. Sua madre è appassionata di cinema, mentre suo padre è ingegnere del suono. Il giovane regista spiega il suo rapporto con l’Arte attraverso questo ricordo: “Uno studente una volta mi ha chiesto come facessi a scrivere di Arte, io ho risposto che non faccio questo, ma è l’Arte che scrive di sé, servendosi della mia mano/penna nello stesso modo in cui funziona al cospetto di uno “scrittore fantasma”: l’Arte ha solo bisogno, dunque di un mezzo fisico, che le consenta di uscire allo scoperto.
“L’Arte è esperienziale (non sperimentale), parla sulla base del vissuto di ciascuno di noi. È una angoscia esistenziale quella che condividiamo con l’opera d’arte, la quale risuona dentro di noi e ci accompagna. Si è incorporati all’opera d’arte a partire dal momento traumatico della nascita: il resto, la scrittura dell’arte, è solo un commento”.
Kamal Aljafari produce documentari e film smantellando la funzione sociale del documento visivo-storico. In Port of Memory (2010) la ricerca dell’equilibrio si combina ad un’atmosfera spettrale che sfocia in una sintesi di immagine e racconto. Kamal Aljafari si trasforma in narratore quando parla della Palestina in termini di esplosione di un desiderio, che affiora quando si incrocia qualcosa che non è immediatamente percettibile, ma che è noto, in quanto è già stato appreso ed è depositato da qualche parte.
Come fa un palestinese a diventare un regista – non un “regista palestinese”, che apprende a riprodurre le condizioni in cui versa la sua terra e, a ricondurle entro un registro audiovisivo che trasformi le immagini in dati/fatti? Filmandola come se non fosse stata persa e, riducendo gli occupanti a mere presenze, inserite in uno schermo. Nena News