A più di vent’anni dalla firma degli accordi di Oslo, è importante dare attenzione ai segnali informali, dalla società civile e dal mondo delle produzioni artistiche. Intervista al regista del film “Amore, furti e altri guai”, Muayad Alayan
di Silvia Hassouna
Roma, 30 marzo 2016, Nena News — “Amore furti e altri guai” (Al-Hobwa Al-Sariqawa Mashakel Ukhra) è il primo lungometraggio del regista palestinese Muayad Alayan. Racconta la storia del palestinese Mousa, cresciuto in un campo profughi sotto l’occupazione israeliana. Mousa vive di espedienti e piccoli furti. Vuole lasciare il paese e così corrompe un allenatore di calcio che sta formando una squadra di israeliani e palestinesi diretta a giocare a Firenze. Per ottenere i soldi necessari, il protagonista ruba macchine israeliane e le rivende in Palestina. Ma nell’ultima macchina rubata da Mousasi trova Avi, un soldato israeliano rapito dai miliziani palestinesi. E così Mousa si ritrova improvvisamente ricercato dall’intelligence israeliana e dai combattenti.
Girato in Cisgiordania e a Gerusalemme, il film è stato presentato al 65imo Festival internazionale di Berlino nella sezione Panorama ed è stato prodotto da PalCine, casa di produzione fondata nel 2012 da Muayad e dal fratello Rami che riunisce artisti palestinesi nell’area tra Gerusalemme e Betlemme.
Come scrive Maurizio Porro, “il film espone una coabitazione senza mai parere vittimistico né folk; senza preconcetti o pregiudizi; senza retorica. Con certe freschezze di racconto da nouvelle vague della Striscia di Gaza che potrebbe essere anche un armistizio, una mediazione cinematografica alla questione medio orientale” (Maurizio Porro, Corriere della Sera, 25 febbraio 2016).
Il 27 febbraio, al cinema Beltrade di Milano, ho incontrato il regista, in Italia per promuovere l’uscita del film, accompagnato dal distributore italiano Paolo Minuto di Cineclub Internazionale. Dopo la proiezione del film, io e altri spettatori ci siamo trovati nella caffetteria del cinema Beltrade. L’atmosfera è informale, sediamo in cerchio e, assieme agli altri spettatori, iniziamo a discutere del film, del punto di vista del regista e della situazione israelo-palestinese. Muayad sa ascoltare e parla volentieri.
Quotidianità del conflitto: come in una dark-comedy
Muayad ci racconta come l’idea chiave del film sia nata da un caso concreto, il rapimento di un soldato israeliano. “Io e mio fratello Rami ci siamo trovati a pensare: qual è la cosa peggiore che può succedere a qualcuno che non vuole avere nulla a che fare con la politica? Trovare lui il soldato! E così abbiamo cominciato a fantasticare su un personaggio che, cercando di fuggire, finisce invece sempre più invischiato nel conflitto”.
Il film, in un elegante bianco e nero, è influenzato dal cinema di Jim Jarmusch e Jean-Luc Godard, e racconta una storia cruda senza crudeltà, attraverso la distanza stabilita dall’umorismo. “Credo che la vita in Palestina, in certi momenti, possa sembrare al quanto assurda” ci spiega Muayad.“Ogni giorno ti scontri con gli stessi problemi e arrivi al punto che ti viene un po’ da ridere. Noi volevamo ricreare la stessa atmosfera con una storia che ricordasse una fiaba. E non perché i problemi raccontati non siano reali, lo sono molto, ma perché volevamo esprimere questo stato mentale, una sensazione, che fanno parte anche della mia quotidianità sotto l’occupazione israeliana. La mia generazione, la generazione post-Oslo, sta esplorando la commedia nera e il sarcasmo”.
Oltre la rabbia, tra comico e tragico
Uno degli aspetti più potenti del film è la capacità di narrare situazioni di oppressione e frustrazione senza trasmettere alcun senso di risentimento. E così ho chiesto a Muayad quali fossero i suoi sentimenti verso rispetto alla realtà del conflitto: “Un tempo ero molto arrabbiato. Litigavo con i soldati ai checkpoint, ma poi mi sono reso conto che questa situazione è umiliante anche per loro. So riconoscere un soldato che non vuole essere dove si trova, alcuni fanno il servizio militare solo perché devono”.
In questa assenza di rabbia, i dialoghi del film miscelano comico e tragico. Memorabile la conversazione davanti al fuoco tra Avi, il soldato rapito, e Mousa.
Mousa: “Che ruolo hai nell’esercito?”
Avi: “Sono un soldato normale, volevo far parte della radio militare ma non mi ci hanno voluto”
M: “C’è una radio militare?”
A: “Certamente”
M: “E cosa fanno?”
A: “È tipo una radio normale ma per soldati, intervistano soldati, trasmettono canzoni. In realtà credevo che la prova fosse andata molto bene, ma loro la pensavano diversamente”
M: “Fammi vedere cosa hai fatto durante la prova”
A: “Non capiresti”
M: “Va bene comunque”
A: “[Recita in ebraico]Buon giorno signori e signore, ragazzi e ragazze [Avi canta]”
M: “Ecco perché non hanno inviato carri armati e areoplani per salvarti”.
Personaggi: locali e universali
Il film presenta una galleria di personaggi e atteggiamenti tipicamente legati alla vita dei palestinesi sotto occupazione che allo stesso tempo richiamano un immaginario universale, dall’intelligence israeliana alla figura del padre severo ma saggio. In questo scenario, Mousa è il centro dello scontro tra individualismo e il bene comune che si manifesta nel suo dialogo con i miliziani palestinesi. I miliziani vogliono negoziare la liberazione del soldato rapito in cambio di prigionieri palestinesi trattenuti nelle carceri israeliane. Mousa accetta di consegnarlo loro solo se otterrà 10 mila dollari in cambio.
“Si tratta di uno scontro tra l’eroe che offre la sua vita alla causa, e il ladro o vigliacco. Il protagonista vuole ciò che è bene per il suo paese ma più di ogni altra cosa vuole vivere; come se dicesse: io sono un individuo unico, non un eroe”, ci spiega Muayad. Lo sguardo del regista ci dice che nessuna categoria è assoluta, nemmeno quella dell’eroe, e che le contraddizioni sono più vere dell’ideologia: “Perché volete liberare i prigionieri? Così che possano vedere come fatichiamo a vivere? Lasciateli in prigione!”, urlaMousa ai miliziani. Così il film ci mette davanti a un dibattito che è locale, riferito alla società palestinese in Israele-Palestina ed è al contempo universale.
Dalla fiction al mondo reale
La conversazione col regista si sposta quindi dalla politica nella fiction alla politica nel mondo reale. “Quante persone ci sono come Mousa, che non vogliono sapere, vogliono vivere?”, chiede una signora del pubblico. “In Palestina ci sono più persone coinvolte in lotte politiche di quante ce ne siano in media nel resto del mondo. Allo stesso tempo, queste persone non vorrebbero trovarsi nella situazione in cui si trovano, vorrebbero un’altra vita, vorrebbero poter scegliere se avere a che fare con la politica o meno. Quindi direi che parecchi sono come Mousa, purtroppo”, risponde Muayad.
Anche i recenti disordini in Palestina e Israele e la cosiddetta Intifada di Gerusalemme sono un tema caldo: “Personalmente sono sorpreso – dice Muayad – Credevo che sarebbero stati casi isolati di poche persone ma ora parliamo di 120 persone. Neanche i palestinesi sanno spiegarsi il fenomeno. Ci sono i coloni e quello che ti senti ripetere è che non c’è nulla da fare. I giovani hanno bisogno di spazi per esprimersi. Negli ultimi anni ogni tipo di attivismo politico è stato soppresso”. Questo perché la frustrazione dello stallo post-Oslo e le continue politiche di repressione contribuiscono a che la disperazione delle persone sfoci con violenza per le strade.
Amore: un lieto fine “alla palestinese”
In contrapposizione con uno scenario politico statico, Mousa affronta un processo di evoluzione ed emancipazione attraverso il film. Nella scena finale vediamo Mousa in prigione con la famiglia al suo fianco, sotto lo sguardo di un carceriere. Non più un vigliacco che lascia le persone amate al loro destino, Mousa ha affrontato le proprie responsabilità. “Non ho mai preso in considerazione nessun altro finale, Mousa ha riconquistato la sua donna e sua figlia e si è redento”, dice Muayad. In un certo senso Mousa adesso è libero, ma con enormi restrizioni e limiti: “E’ il massimo della felicità che si può trovare in un lieto fine alla palestinese”, scherza Muayad.
Do you believe in peace?
Pur essendo in bianco e nero, il film ci presenta un panorama complesso e ricco di sfumature. “Lei crede nella pace?”, chiedono i diplomatici europei a Mousa, candidato a entrare in Europa. Mousa li guarda spaesato: “Certamente…la pace è una cosa molto buona”. Le domande dei diplomatici dell’UE echeggiano assurde nella stanza bianca e spoglia in cui la scena si svolge. Il dialogo sembra mettere in discussione la logica stessa alla base degli interventi stranieri nel paese che impongono una prospettiva tutta eurocentrica sul conflitto. Diplomatico: “Il viaggio prevede una visita ad Auschwitz, è un problema per lei?”. Mousa: “Non andiamo in Italia?”. Diplomatico: “Sì, ma prima dovremo passare per Auschwitz”.
“Ci sono molte missioni di aiuto in Palestina – dice Muayad – organizzate con le migliori intenzioni, ma purtroppo i progetti e l’idea dei bisogni che ci sono alla base spesso non tengono conto della storia del luogo”.“Credi nella pace?” è anche ciò che ho chiesto al regista a conclusione della nostra conversazione. “Credo che la pace dovrebbe semplicemente esistere senza che se ne parli tanto. Credo che pace sia una parola che ha molti significati. Credo che abbia più senso cercare di raggiungere più giustizia, libertà e l’uguaglianza e che queste alla fine possano portare la pace”. E conclude: “Personalmente sono contento se il pubblico segue e supporta il cinema, la letteratura, la musica e l’arte palestinese. Per il valore intrinseco che hanno”. Nena News