Intervista a Maryse Gargour, regista di “Encounter with a Lost Land”, film su una Palestina perduta, filtrata attraverso le vicende di una famiglia francese, perfettamente integrata, alla fine degli anni ’20, nella Jaffa cosmopolita, Paradiso terrestre, ricco di aranceti, vivacità culturale e bambini festosi.
di Cecilia Ermini*
Abolendo i labili confini tra documentario e finzione, il film di Maryse Gargour, “Encounter with a Lost Land”, presentato o in anteprima mondiale al festival Sguardi Altrove, dedicato al cinema al femminile – in corso nel capoluogo lombardo fino a domenica 23, wwwsguardialtrovefilmfestival.it – mette al centro del racconto la rievocazione di un passato affondato, bisognoso di contemporaneità e di ascolto.
La realtà storica di una Palestina perduta viene filtrata attraverso le vicende di una famiglia francese, quella del dottor Boureau e dei suoi figli, perfettamente integrata, alla fine degli anni ’20, nella Jaffa cosmopolita, Paradiso terrestre, ricco di aranceti, vivacità culturale e bambini festosi. La ripresa del mare da una nave in movimento fa da interpunzione filmica e diventa così motore di una Storia, raccontata da più voci, di una terra idealmente sterminata, ebbra di sole e di fertile traffico marittimo, rievocata davanti alla macchina da presa da alcuni sopravvissuti al disastro dell’annessione innaturale. É una voce off a raccordare emotivamente tutto il materiale, una voce dell’anima chiamata dalla regista a leggere il passato e ad arricchire di senso questa storia (purtroppo) infinita che Maryse Gargour ci ha raccontato poche ore prima della proiezione.
Come ha conosciuto la famiglia del dottor Boureau
Stavo lavorando a un altro progetto quando, dopo una proiezione in Provenza del mio primo film This Land Speaks Arabic, una signora è venuta da me e mi ha detto: «Questo film racconta la mia vita. Vivevo in Palestina con la mia famiglia, mio padre si è trasferito alla fine degli anni ’20i e siamo rimasti lì fino ai primi anni ’50.» Era una delle figlie del dottor Boureau, chirurgo dell’Ospedale Francese di Jaffa. Dopo qualche tempo lei e la sorella sono venute a trovarmi a Parigi per parlare della Palestina prima del 1948, e della loro vita a quel tempo. Il film è nato così, grazie a una conversazione, e successivamente, sempre tramite le due sorelle, sono riuscita a contattare tutti gli intervistati. Nel corso del lavoro si è creato uno splendido clima di collaborazione anche perché tutti sentivano il bisogno di parlare, di ricordare.
Come ha lavorato sui materiali d’archivio
Il materiale d’archivio è stato molto importante, ne ho trovato un’enorme quantità. Per questo la cosa più difficile è stata la scelta, che doveva essere drastica, di cosa tenere e di cosa sacrificare. Avevo accumulato tante immagini i con il mio film precedente, soprattutto archivi diplomatici, che non avevo usato, e mi sono sentita quasi obbligata a recuperarlo. La costruzione dei miei film parte sempre dall’inizio e dalla fine, non posso arrivare a una storia senza un punto di partenza e un punto di arrivo; tutto quello che c’è in mezzo è fluido ma sapevo che l’archivio era indispensabile alla mia narrazione.
Nel film la voce della Storia, quella al presente dei protagonisti e le parole su carta del dottor Boureau si intersecano alla perfezione…
Lavoro sempre così, mixando più piani di ascolto, ma non lo definirei un assemblaggio. Per questo film ho chiesto alle figlie se il loro padre avesse avuto per caso una corrispondenza in forma di lettera, e loro mi hanno consegnato un blocco di lettere scritte da Jaffa a chi stava in Francia, con minuziose descrizioni della vita dell’epoca: le strade, la vita sociale, le usanze. Così ho pensato di inserire la figura del padre come se fosse un «personaggio vivente» del film, come voce capace di testimoniare il passato e di integrarsi con la Storia della Palestina, creando un fortecollegamento fra la Storia, ciò che scoprivo nelle lettere e ciò che imparavo dalla voce dei protagonisti.
Cosa è rimasto della vecchia città di Jaffa dal punto di vista urbanistico ma soprattutto da quello culturale?
Per chi può andare a visitarla, è rimasta la parte più vecchia, che è stata comunque rinnovata dalla municipalità di Tel Aviv. Prima del 1948 Tel Aviv era Jaffa. Sono rimaste le vecchie case, le strade ma molte parti sono state distrutte dalle nuove costruzioni. La società di un tempo invece è completamente sparita, tutti gli abitanti di qualsiasi stato sociale sono scomparsi. Tutto è stato cancellato dall’espulsione, così quel clima frizzante, aperto e di perfetta convivenza fra cultura araba e palestinese, si è completamente dissolto. Persino le famose arance non esistono più. Alcuni palestinesi sono rimasti a Jaffa ma sono davvero pochi e sono tutti molto anziani. I genitori continuano a raccontare la storia di Jaffa, e i giovani conoscono la storia del loro paese solo grazie a questa trasmissione orale. É anche per questo che ora stanno combattendo, per la loro storia e per le loro tradizioni.
Nel finale del film la malinconia per quel mondo perduto si reifica nella consapevolezza che la parola Palestina ha perso completamente il suo significato originario
La parola Palestina oggi è usata per indicare i territori occupati, un senso completamente diverso dall’accezione dai vecchi confini che delimitavano quella terra. La Palestina dove vivevano i miei protagonisti era uno stato aperto, senza confini culturali o sociali ed è anche per questo che i palestinesi continuano a lottare, per denunciare questa ingiustizia. Non combattono soltanto per i territori occupati ma affinchè la parola ritorni alle sue vere origini. Nena News
*Questa intervista e’ stata pubblicata il 21 marzo 2014 dal quotidiano Il Manifesto