Otto morti durante le proteste contro i coprifuoco imposti dalle autorità turche nel Kurdistan turco nelle ultime due settimane. 3 i poliziotti uccisi dai combattenti del Pkk. Continuano le tensioni tra Turchia e Russia
AGGIORNAMENTI ore 17:00
Sono 8 e non solo due i curdi uccisi ieri nelle proteste contro il coprifuoco imposto dalle autorità turche nel sud-est del Paese. Alle due vittime di Diyarbakir si aggiungono i 6 militanti del Pkk uccisi nella provincia di Mardin nel distretto di Dargeçit (Turchia sud-orientale).
I combattenti curdi del Pkk hanno ucciso oggi 3 poliziotti nel distretto di Silvan nella provincia di Diyarbakir
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Chiara Cruciati il Manifesto
Roma, 15 dicembre 2015, Nena News – Due morti a Diyarbakir: è il bilancio della violenta repressione della polizia turca contro i 5mila manifestanti scesi in piazza nella “capitale” kurda per protestare contro i coprifuoco imposti da Ankara nelle ultime due settimane. Dal 2 dicembre il pugno di ferro turco sta strangolando le città kurde del sud-est: a Diyarbakir (Amed in kurdo) è stato indetto nel quartiere di Sur dopo l’omicidio di Tahir Elci, presidente dell’Ordine degli Avvocati e noto attivista politico.
La città – come le altre comunità target nel Kurdistan turco – è blindata, la vita si è interrotta: scuole chiuse, immondizia lungo le strade, autobus fermi, negozi sbarrati, ospedali in stato di emergenza. Nei villaggi a sud, lungo il confine con la Siria, la gente si mette in fila fuori dalle panetterie e dai supermercati, nelle “ore d’aria” per procurarsi il cibo nel timore di ulteriori chiusure. «A Cizre e Silopi gli insegnanti sono stati costretti a lasciare le città, i dormitori degli studenti sono stati evacuati ed è stata dispiegata l’artiglieria pesante – dice un’attivista locale al manifesto – Sono il chiaro segno della pianificazione di un grande massacro».
Le proteste sono esplose ieri: una lunga marcia ha preso il via da diversi quartieri di Diyarbakir, diretta verso quello di Sur. Migliaia di persone a braccetto, una catena umana a cui hanno partecipato membri del partito di sinistra Hdp: l’obiettivo era riuscire ad entrare nel quartiere epicentro degli scontri e della repressione. La polizia ha subito sparato sulla folla lacrimogeni e cannoni ad acqua e arrestato almeno 40 persone. Giovani con il volto coperto hanno risposto lanciando pietre contro i blindati, innalzando barricate e appiccando il fuoco a copertoni. Due i morti, 21 e 25 anni: secondo testimoni sono stati colpiti alla testa dalle pallottole della polizia. Nei social network rimbalzavano ieri le immagini dei due corpi a terra, le teste coperte di sangue. Nelle stesse ore a Mardin, altra area sotto coprifuoco, cinque sospetti membri del Pkk sono stati uccisi, apparentemente in scontri con i militari.
Da metà agosto, secondo la Fondazione per i Diritti Umani, sono stati imposti 52 coprifuoco in 7 province del paese, casa a 1,3 milioni di persone. I civili pagano un prezzo altissimo. Come a Silvan, 80 km a nord est di Diyarbakir: missili sulla comunità a metà novembre hanno ucciso due civili, mentre un coprifuoco lungo settimane ha affamato la popolazione. Una violenza tale da portare il deputato dell’Hdp, Ziya Pir, a lanciare l’allarme: «Tre quartieri di Silvan rischiano di scomparire dalle mappe».
Situazione simile a Diyarbakir dove intere famiglie, a causa degli attacchi delle forze militari, stanno lasciando la città, portandosi dietro quel che possono: «Non possiamo uscire di casa per via degli scontri. Non abbiamo più acqua e cibo e le nostre case sono state danneggiate», racconta un residente del quartiere Sur all’agenzia Dogan News. Le immagini raccontano una guerra: edifici danneggiati, segni di proiettili nei muri, macerie per le strade, moschee date alle fiamme.
La giustificazione del governo è la sicurezza: distruggere il movimento indipendentista Pkk. Ma per i kurdi turchi la repressione ha il sapore di una punizione collettiva, perpetrata contro la mobilitazione popolare e le vittorie politiche dell’Hdp.
Violenza dentro, tensioni fuori
L’altra faccia della medaglia turca la si vede fuori dai confini. Facendosi scudo con la Nato, di cui è pedina, Ankara aggredisce. Soprattutto se di fronte ha la Russia, che non esita ad usare una strategia punitiva da guerra fredda. Domenica l’ennesimo screzio: una nave da guerra russa ha lanciato colpi di avvertimento contro un’imbarcazione da pesca turca nel mar Egeo. Secondo il Ministero della Difesa di Mosca, la nave turca era così vicina da rischiare una collisione.
Un evento di scarsa importanza, se non avvenisse in un periodo in cui i rapporti tra Ankara e Mosca toccano i minimi termini. «La nostra pazienza ha un limite, la Turchia vuole superare le tensioni ma la Russia usa ogni opportunità per colpirci», ha detto il ministro degli Esteri turco Cavusoglu accusando la controparte di reazione esagerata. Mosca risponde cancellando il meeting al Cremlino, previsto per oggi, tra Putin e Erdogan.
A monte sta la aggressività turca in Medio Oriente: nel disperato tentativo di ritagliarsi un posto al tavolo globale che ridefinirà zone di influenza e futuro della regione, Erdogan usa la forza. Come in Iraq, dove ha inviato 150 soldati e 30 carri armati facendo infuriare Baghdad e rischiando di accendere la reazione delle milizie sciite. Ieri Ankara ha ritirato una decina di tank dispiegati nella base di Bashiqa, 20 km da Mosul, per raffreddare gli animi iracheni. Ma a Baghdad non basta e insiste: tutti fuori. Nena News