Seconda e ultima parte dell’analisi di Amir Mohamed Aziz sulla rivista Merip: le istanze collettive, le aspirazioni e le rivendicazioni sono spesso sottovalutate nelle discussioni su come e perché l’Algeria sembri essere stata relativamente poco toccata dalle rivoluzioni popolari che hanno avuto luogo in Tunisia, Egitto e Libia nel 2011
di Amir Mohamed Aziz – MERIP
Traduzione di Elena Bellini
Roma, 5 aprile 2019, Nena News – (qui la prima parte)
Le rivendicazioni dei giovani
Le proteste di massa in Algeria sono caratterizzate da una forte partecipazione giovanile e da un uso diffuso dei social media per la comunicazione e l’organizzazione. La mobilitazione giovanile nasce da rivendicazioni simili a quelle condivise dalla popolazione più in generale, ma anche da rivendicazioni specifiche per le loro condizioni sociali ed economiche.
I racconti sulla natura delle proteste che hanno come protagonisti i giovani hanno cominciato a circolare all’inizio delle manifestazioni. Lo scontento giovanile era emerso in modo chiaro al quinto giorno di proteste, grazie a un’ondata di manifestazioni studentesche. Gli studenti hanno organizzato quelle proteste attraverso i social media, invitando gli altri a saltare le lezioni e a riunirsi in manifestazioni nei campus universitari, negli istituti d’istruzione e negli spazi pubblici in tutto il Paese. Contingenti di studenti hanno marciato nel centro di Algeri, mentre all’università di Ben Aknoun, nella zona orientale di Algeri, hanno bloccato il traffico e costruito una bara improvvisata, avvolta nella bandiera algerina, con sopra una foto di Bouteflika strategicamente posizionata.
In un video messo in onda dalla Berber Television, rapidamente diventato virale sui social media, un giovane studente algerino descrive in modo eloquente la corruzione, l’inerzia e l’apatia dell’élite, ricordando ai telespettatori che il governo è in minoranza rispetto alla maggioranza democratica del resto della popolazione.
Della popolazione algerina, in tutto 41 milioni, circa il 30% ha meno di 30 anni, con oltre il 25% di giovani in età lavorativa che sono disoccupati. Oltre alla gioventù e alla disoccupazione nazionale, un fattore aggravante è l’eccessiva dipendenza del Paese dall’industria degli idrocarburi, dominata da società di proprietà statale e in gran parte isolata nelle regioni produttrici di petrolio dell’Algeria meridionale. L’export di petrolio e gas, tuttavia, è stato drasticamente colpito dal crollo dei prezzi degli ultimi anni.
Poiché l’economia algerina si basa su un instabile comparto petrolifero e del gas, in cui i proventi sono reinvestiti nel settore degli idrocarburi o spesi in costose importazioni, il tasso di disoccupazione e la stagnazione dei salari che colpisce la popolazione in generale non si possono combattere in modo adeguato se non si punta, per prima cosa, alla diversificazione nel settore export e alle iniziative per la creazione di posti di lavoro.
Le giovani generazioni, in particolare, si trovano davanti prospettive economiche limitate dopo la laurea specialistica all’università. La possibilità di trovare un lavoro in linea con la loro formazione professionale e la specializzazione è fortemente limitata da un mercato del lavoro debole, dominato dal settore dell’energia. La maggior parte dei giovani algerini sono disoccupati cronici o svolgono occupazioni sottopagate, concentrate al di fuori del settore energetico, con bassa sicurezza economica e scarsa mobilità sociale. La promessa di un miglioramento della posizione socio-economica, che un’istruzione di tipo universitario dovrebbe garantire, resta inesaudita.
I giovani e gli studenti che protestano si stanno quindi mobilitando contro l’aumento delle tasse universitarie, gli schemi ricorrenti di aumento della disoccupazione giovanile e le limitate opportunità di mobilità socio-economica. I politici autocrati del FNL non sono più indiscussi.
Guardando avanti
Molte strade, monumenti e parchi in Algeria portano i nomi di martiri della rivoluzione, guerriglieri e patrioti, fornendo un ricco arazzo di memoria collettiva, in cui la storia rivoluzionaria algerina è materialmente incisa nella geografia spaziale del Paese. Place Audin ad Algeri, per esempio, porta il nome del matematico francese e attivista anticolonialista Maurice Audin: nel 2018, si è scoperto che la sua sparizione, nel 1957, fu una morte per tortura nelle mani dell’esercito francese; Rue Didier Mourad, una grande arteria commerciale di Algeri, rende omaggio a uno dei sei soci fondatori del FLN, ucciso all’inizio della battaglia. A Oran, i manifestanti si sono radunati in Rue Larbi Ben M’hidi, una via che porta il nome dell’importante leader algerino la cui morte misteriosa mentre era sotto custodia francese lo ha trasformato in un’icona della rivoluzione.
I manifestanti conoscono e prendono spunto da precedenti esemplari della ricca tradizione storica della protesta rivoluzionaria, centrale nella vita sociale algerina. La geografia e l’iconografia della protesta entrano in collisione: scendere in piazza in luoghi intrisi di iconografia rivoluzionaria del FNL porta con sé un contrappeso simbolico e non è casuale, dato che gli spazi ricolmi di simbolismo rivoluzionario della vecchia guardia sono oggi riscritti come spazi della controcultura di resistenza contro, paradossalmente, quella stessa élite che ha portato l’Algeria all’indipendenza.
La principale preoccupazione, comunque, non è in che modo paragonare questo ciclo di proteste alle precedenti sollevazioni, ma piuttosto quali potenzialità abbiano queste proteste, alla luce di come le loro dinamiche abbiano trasformato la memoria collettiva algerina e la prassi rivoluzionaria.
Invece di valutare la protesta in termini di successo o fallimento finale, proprio come nella valutazione della politica, è più utile chiedersi: in che modo i manifestanti stanno riconfigurando le relazioni sociali e i legami sociali? Quali alleanze, connessioni, rivelazioni e sentimenti si stanno scoprendo, forgiati o rafforzati dal processo di protesta in sé? Quali immaginari collettivi di cambiamento rivoluzionario si stanno creando, rinnovando o mettendo in circolo? Questo punto di vista considera la protesta di per sé come processo di trasformazione potente, capace di rimodellare le relazioni socio-politiche al di là del luogo e della durata dell’assembramento.
Non è chiaro, tuttavia, se le proteste porteranno a qualche vero cambiamento rivoluzionario in Algeria. Potrebbero spianare la strada a un nuovo futuro politico o venire represse dalla polizia, tutto può succedere. Anche se Bouteflika ha annunciato che non si ricandiderà, i manifestanti non accennano a volersi fermare. Gli algerini sono consci del fatto che le politiche del Paese non iniziano né finiscono con Bouteflika; il potere è in pugno a un’oscura cerchia di generali militari, legislatori, politici e nazionalisti fedeli al partito nascosti al pubblico controllo.
Ma è importante ciò che emerge: gli algerini, di ogni generazione e ceto sociale, si mobilitano pacificamente cantando, ballando, intonando e brandendo slogan con convinzione, ironia, arguzia, eloquenza e creatività. Si riuniscono nelle strade, insieme, scambiando idee, creando memoria collettiva e tenendo il posto alla generazione della nuova solidarietà, amicizia e familiarità. Stanno utilizzando i social media in modi diversificati e prendono spunto dalla ricca tradizione storica algerina della protesta rivoluzionaria, creando nuove forme di coscienza politica.
Se la cruda realtà resta la violenza di stato della polizia contro i manifestanti, il momento della protesta in sé è rivoluzionario. Il messaggio che i manifestanti stanno mandando alle élite è forte e chiaro: quando è troppo, è troppo, basta con le promesse vuote, il popolo algerino vuole un cambiamento concreto.