Da circa 25 anni, i presidenti degli Stati Uniti cercano di ridefinire le relazioni tra America e Medio Oriente, ma non sono riusciti a prevenire il declino palpabile del ruolo statunitense nel plasmare una regione tanto strategica. Trump, alla sua prima visita all’estero, crede di avere un’opportunità
di Ramzy Baroud
Ramallah, 25 maggio 2017, Nena News –
Introduzione
Per quanto riguarda il Medio Oriente, tutti i Presidenti americani hanno sognato di agire nel segno di Roosevelt, che fu in grado di stabilire un ruolo preciso degli Stati Uniti nella regione per 70 anni.
George Bush ha tentato di rinsaldare il dominio del suo Paese con un’imponente coalizione multinazionale contro l’Iraq, tra il ’90 e il ’91; suo figlio, W. Bush, ha ricevuto enormi pressioni dai neo-con, che volevano evitare una diminuzione della sfera di influenza statunitense; Barack Obama ha avuto la sua occasione nel 2009, quando ha teso la mano con toni concilianti in occasione del suo discorso all’Università del Cairo; e ora, il Presidente Donald Trump vuole stabilire la sua narrazione durante la prima visita in Medio Oriente. Ma la storia non si scrive con le speranze dei singoli: e l’opportunità di Roosevelt non si ripresenterà.
Il momento di Roosevelt
È opinione comune che lo storico incontro tra il Presidente Franklin D. Roosevelt e il fondatore della moderna Arabia Saudita, Re Abdulaziz Ibn Saud, avvenuto a bordo della U.S.S Quincy nel Canale di Suez nel 1945,(1) abbia determinato l’influenza, se non addirittura l’egemonia, degli Stati Uniti sul Medio Oriente.
All’epoca, l’Arabia Saudita era una potenza economica emergente nella regione, mentre gli Stati Uniti si profilavano come la futura super-potenza globale, raccogliendo ciò che restava dell’Impero Britannico.
Roosevelt aveva due obiettivi primari: la costituzione di uno Stato Ebraico in Palestina e il controllo del petrolio mediorientale.
Ibn Saud, dal canto suo, voleva stabilizzare il potere sul piano interno e garantire al suo Paese una certa influenza nella regione. Non cedette sulla Palestina, ma stipulò un accordo che può dirsi valido ancora oggi: avrebbe ricevuto sostegno militare degli Stati Uniti in cambio del petrolio saudita.
Roosevelt agiva da una posizione di potere; con la sigla dell’accordo, gli interessi Statunitensi diventavano centrali nella realtà mediorientale. Uno dei fattori di forza per il Presidente degli Stati Uniti era il ruolo assunto a Yalta, nella conferenza con Winston Churchill e Joseph Stalin.(2)
Il quadro che si delinea in seguito a questo incontro non è meno rilevante di quello venuto fuori dopo l’accordo di Sykes-Picot, siglato tra Gran Bretagna e Francia, con l’assenso della Russia, nel 1916. In quel caso, le due super-potenze europee si spartivano i resti dell’Impero Ottomano, definendo la geografia e gli attuali confini del Medio Oriente. (3)
Anche la Conferenza di Yalta, nel febbraio del 1945, produsse un nuovo scenario. Si chiedeva la resa incondizionata della Germania, ottenuta poi nel maggio dello stesso anno, e si ridefiniva l’ordine mondiale in epoca post-bellica.
L’accordo tra Roosevelt e Ibn Saud, raggiunto a bordo della U.S.S. Quincy, va a consolidare quei progetti. Assegna agli Stati Uniti il ruolo di custodi del Medio Oriente, ridimensiona l’influenza della Gran Bretagna mentre enfatizza quella dell’Arabia Saudita e fa del petrolio un’arma strategica fondamentale dal punto di vista geopolitico.
Il Medio Oriente americano
Le cose non andarono esattamente come previsto. Gli USA e gli alleati europei si contrapposero all’Unione Sovietica subito dopo Yalta, dando avvio a una Guerra Fredda sicuramente destabilizzante e a tratti distruttiva.
I vari Paesi iniziarono ad agire secondo interessi contrapposti. Alleati e nemici venivano determinati velocemente, sulla base della nuove forze in campo. Sulle rovine della Palestina storica, veniva fondato Israele, che divenne presto il più potente alleato degli USA nella regione. Il Medio Oriente fu investito da un’ondata di instabilità politica: rivolte, colpi di stato e caos sconvolsero la maggior parte dei Paesi Arabi, costretti, in misura variabile, a scegliere da che parte schierarsi nella Guerra Fredda.
Ma l’alleanza tra Stati Uniti e Arabia Saudita restò salda. Per certi versi, pur rappresentando il maggior fattore di destabilizzazione in Medio Oriente, gli Stati Uniti sapevano anche garantire la stabilità, quando questa tornava utile. L’Arabia Saudita non fu travolta dal caos; e anche gli alleati degli Stati Uniti approfittarono della protezione degli USA.
La brusca fine della Guerra Fredda, se da un lato ha offerto agli Stati Uniti nuove opportunità in Medio Oriente, dall’altro li ha costretti ad abbandonare o, nel migliore dei casi, a interpretare diversamente i termini dell’accordo tra Roosevelt e Ibn Saud.
L’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq, nel 1990, rappresentava una sfida coraggiosa, non solo al quadro delineatosi dopo Sykes-Picot, ma anche all’ordine post bellico a guida statunitense e all’accordo che per decenni aveva legato gli USA e l’Arabia Saudita.
Probabilmente, George Bush avrebbe potuto imporre all’Iraq di lasciare il Kuwait senza coinvolgere oltre 30 Paesi in una parata di guerra. Ma gli americani volevano ribadire dei punti fermi: rassicurare i Sauditi e gli alleati del Golfo; sancire, senza ombra di dubbio, che la nuova stagione che si apriva in Medio Oriente (e altrove) sarebbe stata indiscutibilmente a guida statunitense e ribadire i termini dell’accordo tra Roosevelt e Ibn Saud.
Paradossalmente, quel momento di gloria segna anche l’inizio del declino dell’egemonia statunitense nella regione.
L’ascesa dell’Iran
“Per gli americani, è difficile accettare di non essere sempre la fonte di tutto il bene e di tutto il male che c’è nel mondo,” ha scritto George Packer sul New Yorker nell’ottobre del 2014. Descriveva questo sentimento come “una sorta di narcisismo nazionalistico che unisce destra e sinistra in una comune illusione.”(4)
Packer è nel giusto, perché questa prospettiva pone gli Stati Uniti come il vero motore della storia moderna. È un’idea egocentrica e pretenziosa del potere americano, che tende a negare il fattore umano e le circostanze contingenti, che talvolta sono impossibili da gestire per gli USA.
Tuttavia, usare una simile argomentazione per assolvere gli Stati Uniti dal ruolo cruciale che hanno avuto nel determinare il caos politico attuale in Medio Oriente è, quanto meno, poco onesto. Dal 2003, anno dell’invasione e dell’occupazione dell’Iraq ad opera degli Stati Uniti, inizia per la regione il crollo che è tuttora sotto gli occhi di tutti.
Gli Stati Uniti volevano creare, e per certi versi ci sono riusciti, un nuovo ma temporaneo paradigma di potere in Medio Oriente; tuttavia, si è scatenato un effetto boomerang inaspettato. Cambiando in modo sostanziale le dinamiche di potere dell’Iraq, nel tentativo di modificare gli equilibri settari (5) di uno dei Paesi arabi più estesi e influenti, gli USA hanno imposto troppe variabili in una regione che, già da decenni, vacillava sull’orlo dell’abisso politico.
Gli Stati Uniti hanno distrutto l’Iraq, ma non sono riusciti a restituirgli un assetto che fosse confacente alla loro strategia politica. Incapaci di colmare il vuoto politico creato da George W. Bush e dai suoi consiglieri neo-con, gli USA hanno inconsapevolmente spianato la strada all’Iran, che è stato in grado di sfruttare il pantano iracheno.
Non è detto che gli iraniani si siano mossi secondo un quadro espansionistico predeterminato. Vista l’insistenza dei neo-con nel volere un cambio di regime a Tehran, gli Iraniani hanno fatto di tutto per complicare la missione statunitense in Iraq; bloccando le mire degli USA, talvolta anche andando contro i propri interessi, l’Iran è riuscito a imporsi come la principale potenza mediorientale al di fuori della sfera di influenza degli Stati Uniti.(6)
Le conseguenze sono state devastanti. Se è vero che il settarismo è sempre esistito nella società e nella vita politica del Medio Oriente, va detto che non è mai stato tanto pronunciato come dopo l’invasione dell’Iraq da parte degli USA. (In questo, il Libano rappresenta un’eccezione, per via della complessità della sua struttura settaria).
George Bush è uscito ‘vittorioso’ dalla sua avventura militare in Iraq nel 1990-91, ma non è riuscito a tradurre il successo militare in una realtà durevole. Suo figlio, W. Bush ha fatto un secondo tentativo nel 2003, ma non è riuscito a controllare le conseguenze impreviste della guerra.
Alla fine di entrambe le campagne militari, gli Stati Uniti si sono trovati di fronte a un bivio storico mai sperimentato dopo l’accordo tra Roosevelt e Ibn Saud.
Queste guerre hanno messo bruscamente fine alla cosiddetta politica di ‘contenimento’, combinata alla ‘stabilità’ politica basata sul predominio da un punto di vista militare. Gli Stati Uniti hanno ingaggiato guerre impossibili da vincere, che hanno compromesso la loro posizione agli occhi degli alleati, e scatenato una reazione a catena che ha rafforzato i nemici e messo a rischio la stabilità dei suoi alleati.
Messi alla prova dalla guerra e indeboliti economicamente dalla recessione (a cui le ingenti spese militari hanno senz’altro contribuito)(7), gli USA dovevano necessariamente cercare delle vie d’uscita. A pochi mesi dall’insediamento, il Presidente Barack Obama sembrava poter risolvere il caos generato dal suo predecessore.
Di colore, con un livello di conoscenza del mondo più elevato e un secondo nome di origine araba, il Presidente Barack Hussein Obama ha provato a dirigere la politica estera nei confronti del Medio Oriente verso un vecchio paradigma già noto, in cui il ruolo degli Stati Uniti si esplicava attraverso il soft power e un linguaggio riconciliatorio.
Ma era troppo tardi.
‘Le primavere arabe
A parte il fatto che la dottrina di Obama sembrava più incentrata sullo stile che sulla sostanza, le dinamiche mediorientali sembravano ormai prendere una direzione autonoma, indipendentemente dalle sue parole. Il famoso discorso al Cairo non ha un impatto significativo da un punto di vista sostanziale. (8) Il genio è ormai uscito dalla lampada, ed è impossibile farcelo rientrare. Ma soprattutto, manca una chiara volontà da parte degli Stati Uniti.
Infatti, quando scoppiano le cosiddette Primavere Arabe, gli Stati Uniti stanno ridefinendo la loro strategia globale; sono concentrati sull’Asia, perché vogliono contenere la crescente sfera di influenza cinese sul Pacifico e sul Mar Cinese Meridionale.(9)
Le rivolte popolari, degenerate in guerre civili o regionali, complicano le cose per gli Stati Uniti, che non possono modellare il Medio Oriente in un modo che sia del tutto confacente ai loro interessi economici e strategici.(10)
Nel corso del suo duplice mandato, Obama ha fatto di tutto per mantenere la sfera di influenza del suo Paese, ma ha incontrato notevoli difficoltà. La Russia si è dimostrata più determinante in Siria e l’Iran ha compiuto delle mosse strategiche in Iraq e in Siria.
Gli alleati storici degli USA non hanno accettato di buon grado la palpabile debolezza degli Stati Uniti. La Turchia, in particolare, prima allineata all’asse USA-Sauditi-Stati del Golfo, ha poi adottato una sua strategia autonoma sulla Siria.(11)
Stavolta, non c’era una leadership americana forte; non c’erano coalizioni internazionali in grado di orientare gli eventi e non c’era una dottrina chiara da parte dell’America.
Enter Donald Trump
Il 20 maggio, quando l’Air Force One è atterrato a Riyadh, in Arabia Saudita, il Presidente Donald Trump sembrava a suo agio, come se fosse tra amici. Si era lasciato alle spalle Washington e la scia di polemiche in seguito al licenziamento di James Comey, direttore dell’F.B.I.
Da tanti anni, Washington D.C non era così divisa politicamente. Per la prima volta dopo molto tempo, gli USA stanno sperimentando un certo grado di instabilità politica. Oppresso dalla crisi economica e dalle pressioni crescenti dei democratici, questo Presidente divisivo, senza una chiara visione del futuro, aveva bisogno di un po’ di respiro.
I Sauditi, invece, stavano cercando l’occasione giusta per coinvolgere Washington nelle loro beghe e nei loro intrighi regionali. Le esperienze con il predecessore di Trump erano state piuttosto deludenti.(12)
Il Presidente Obama aveva compiuto un passo molto sgradito a Riyadh siglando l’accordo nucleare con l’Iran nel 2015, e i Sauditi non avevano apprezzato il suo sostanziale disimpegno nella regione. In occasione della visita in Arabia Saudita, lo scorso anno, il Re Salman non lo aveva accolto personalmente all’aeroporto. Gesto che fu interpretato, a ragione, come un segnale di tensione.(13)
Questa volta, il Re era presente e i rituali di ossequio sono stati persino esagerati.
“Il viaggio di Trump è stato salutato con un entusiasmo inconsueto per questo Paese generalmente molto riservato,” ha scritto il New York Times. “Sono stati affissi enormi manifesti con i volti di Trump e del Re Salman, e ai lati delle vie della città sventolavano bandiere americane e saudite.”(14)
Anche un altro particolare era degno di nota: su alcuni manifesti, campeggiava la vecchia foto dell’incontro tra Franklin D. Roosevelt e il Re Abdulaziz Ibn Saud, a bordo di una nave nel Canale di Suez.
L’intento dei Sauditi era chiaramente cercare di ristabilire un rapporto con gli Stati Uniti, ormai compromesso da anni.
Trump ne è perfettamente consapevole e la scelta di compiere il suo primo viaggio in Arabia Saudita è un modo per consolidare quel vecchio impegno. Sembra infatti che Trump firmerà un accordo da 100 miliardi di dollari per le armi.(15)
La storia, tuttavia, non si scrive in base al desiderio di pochi uomini, per quanto influenti. L’America di Roosevelt (praticamente unica vincitrice della Seconda Guerra Mondiale, in grado di controllare l’economia di mezzo mondo) era un Paese completamente diverso da quello guidato oggi da Trump, caratterizzato da instabilità politica e crisi economica e piegato dalle dure lezioni imparate a proprie spese in Medio Oriente.
Inoltre, nel migliore dei casi, Trump è un Presidente sotto costante attacco, il cui mandato è messo perennemente a rischio dall’instabilità politica interna. Il suo impegno in prima linea per ridefinire un ruolo certo in Medio Oriente non riflette necessariamente la volontà dell’élite politica di Washington.
Ad ogni modo, a parte la posizione precaria di Trump e il rischio di impeachment, il Medio Oriente costituisce ancora un campo minato e Washington ne è in gran parte (se non del tutto) responsabile.
La concezione di Trump, secondo cui politica e affari condividono la stessa logica, (16) e la sua convinzione di poter raggiungere l’‘accordo definitivo’, che presumibilmente riguarda anche la normalizzazione dei rapporti tra Israele e gli Arabi (17) (che per gli Stati Uniti significherebbe dover affrontare l’Iran), potrebbe portare nuovi problemi anziché risolvere quelli già esistenti.
Al di là dei limiti oggettivi e della particolare concezione della politica, è improbabile che Trump possa emulare Roosevelt. Il problema non è solo Trump, ma sono le mutate condizioni storiche tra il febbraio del ’45 e oggi. Quella particolare contingenza non è destinata a ripetersi.
Vista la sua scarsa conoscenza della storia, Trump potrebbe peggiorare ulteriormente le cose. Nel tentativo di aggirare i problemi interni, vorrebbe guadagnare punti in Medio Oriente e riuscire dove i suoi predecessori hanno amaramente fallito.
A proposito di amarezza, va ricordato che l’incontro tra Roosevelt e Ibn Saud ebbe luogo in un ramo del canale di Suez noto come Grande Lago Amaro. Quell’accordo, siglato 72 anni fa, determinò una situazione di sofferta stabilità, ma aveva anche dei risvolti amari, che con il tempo si sono palesati in tutta la loro forza.
Se dobbiamo considerare la visita di Trump in un’ottica storica, potremmo vederla come la fine di un’era e l’inizio di una nuova epoca.
Il contesto amaro dei numerosi conflitti è purtroppo destinato a perdurare, finché non sarà istituito un nuovo paradigma politico che sostituisca l’attuale. Ed è altamente improbabile che sia Trump a porre fine a questa stagione di amarezza.
(Traduzione di Romana Rubeo)
NOTE
(1) Robin Wright (2017) ‘What Donald Trump Can Expect on His Tour of the Middle East’, The New Yorker, 11 May, http://www.newyorker.com/news/news-desk/donald-trumps-three-religion-tour-of-the-middle-east (accessed 16 May 2017)
(2) Adam Taylor (2015) ‘The first time a U.S. president met a Saudi King’, Washington Post, 27 January, https://www.washingtonpost.com/news/worldviews/wp/2015/01/27/the-first-time-a-u-s-president-met-a-saudi-king/ (accessed 20 May 2017)
(3) ‘1916: Britain and France conclude Sykes-Picot agreement’, History.com, http://www.history.com/this-day-in-history/britain-and-france-conclude-sykes-picot-agreement (accessed 20 May 2017)
(4) George Packer (2014) ‘Two Speeches and a Tragedy’, The New Yorker, 1 October, http://www.newyorker.com/news/daily-comment/obamas-two-speeches-tragedy (accessed 20 May 2017)
(5) Nabil Al-Tikriti (2008) ‘US Policy and the Creation of a Sectarian Iraq’, Middle East Institute, 2 July, http://www.mei.edu/content/us-policy-and-creation-sectarian-iraq (accessed 20 May 2017)
(6) Muhammad Sahimi (2013) ‘The U.S. Invasion of Iraq: Strategic Consequences for Iran’, Muftah, 13 March, https://muftah.org/u-s-invasion-of-iraq-strategic-consequences-for-iran/ (accessed 20 May 2017)
(7) Henry Farrell (2015) ‘Here’s why the Iraq War may have helped trigger the financial crisis’, 15 October, https://www.washingtonpost.com/news/monkey-cage/wp/2015/10/15/heres-why-the-iraq-war-may-have-helped-trigger-the-financial-crisis/?utm_term=.4c7d62d83cbf (accessed 20 May 2017)
(8) Michael Crowley (2010) ‘One Year After Cairo: Obama and the Muslim World, Time, 4 June, http://content.time.com/time/politics/article/0,8599,1994146,00.html (accessed 20 May 2017)
(9) Naofumi Hashimoto (2013) ‘The US “Pivot” to the Asia-Pacific and US Middle East Policy: Towards an Integrated Approach’, Middle East Institute, 15 March, http://www.mei.edu/content/us-pivot-asia-pacific-and-us-middle-east-policy-towards-integrated-approach (accessed May 20, 2017)
(10) Ian Black (2012) ‘Barack Obama, the Arab spring and a series of unforeseen events’, The Guardian, 21 October, https://www.theguardian.com/world/2012/oct/21/barack-obama-arab-spring-airo-speech (accessed 20 May, 2017)
(11) Galip Dalay (2017) ‘What next for Turkey in Syria?’, Aljazeera Centre for Studies, 27 March, http://studies.aljazeera.net/en/reports/2017/03/turkey-syria-170327094939654.htm (accessed 20 May 2017)
(12) Oren Dorell (2016) ‘5 issues vexing U.S.-Saudi relations as Obama visits’, USA TODAY, 19 April, https://www.usatoday.com/story/news/world/2016/04/19/5-things-vexing-us-saudi-relations-obama-visits/83245854/ (accessed 20 May 2017)
(13) Dave Boyer (2016) ‘Saudis deliver snub to Obama amid tensions over Iran, Syria’, The Washington Times, 20 April, http://www.washingtontimes.com/news/2016/apr/20/obama-grateful-saudi-kings-hospitality/ (accessed 20 May 2017)
(14) Michael D. Shear and Peter Baker (2017) ‘Elaborate Welcome for President Trump in Saudi Arabia’, New York Times, 20 May, https://www.nytimes.com/2017/05/20/world/middleeast/donald-trump-saudi-arabia.html?_r=0 (accessed 20 May, 2017)
(15) Ibid.
(16) Colbert I. King (2017) ‘Trump wants to treat Middle East peace like a real estate deal. That’s arrogant thinking’, Washington Post, https://www.washingtonpost.com/blogs/post-partisan/wp/2017/05/15/trump-wants-to-treat-middle-east-peace-like-a-real-estate-deal-thats-arrogant-thinking/?utm_term=.541b4c9fe6c1 (accessed 20 May 2017)
(17) Stuart Winer (2017) ‘Gulf states could upgrade Israel ties in exchange for peace overtures’, Times of Israel, 16 May http://www.timesofisrael.com/gulf-states-could-upgrade-israel-ties-in-exchange-for-peace-overtures/