Questo reportage fa parte di una rassegna dedicata all’ascesa del gruppo militante dello Stato Islamico, alle sue implicazioni per il Medio Oriente e ai tentativi intrapresi dal governo statunitense e dagli altri governi per contrastarlo
Greg Miller e Souad Mekhennet – Washington Post
(traduzione di Romana Rubeo)
Rabat (Marocco), 27 novembre 2015, Nena News – La macchina. Le contraddizioni insite nell’apparato propagandistico dello Stato Islamico possono far trasparire una certa incoerenza nella sua struttura e nella sua strategia.
Il gruppo esercita un controllo molto serrato sulla produzione di video e messaggi, ma poi si affida al caos di internet e dei social media per diffonderli. Inoltre, i contenuti sembrano essere discordanti: talvolta il califfato è descritto come un regno pacifico e idilliaco, in altri casi come una società dilaniata da una violenze apocalittiche.
La duplice natura dei messaggi serve a fare colpo su un pubblico diversificato. Le decapitazioni, i sacrifici e altre messe in scena servono a minacciare i nemici occidentali e a spingere uomini musulmani privati dei loro diritti a entrare nel loro mondo.
In altre produzioni, lo Stato Islamico appare come una destinazione vivibile, un’autorità benevola, impegnata in opere pubbliche. Dai video, si vedono cantieri per la costruzione di mercati, agenti della polizia religiosa che pattugliano sorridenti i quartieri e cittadini che pescano sulle rive dell’Eufrate.
È lo stesso concetto di califfato ad avere una duplice natura. L’ascesa del gruppo terroristico risulta principalmente dal suo ostentato potere militare e dalla vastità del territorio conquistato. Ma molte energie sono dedicate anche alla creazione di una versione alternativa e idealizzata dello Stato stesso, che contribuisce a formare la percezione di questo impero virtuale.
Il progetto è stato affidato a una squadra di comunicazione già operativa prima dell’ufficializzazione del califfato, nel 2014. Gli ufficiali dell’intelligence statunitense hanno ammesso di avere poche informazioni su chi effettivamente controlli la strategia propagandistica dell’ISIS; tuttavia, si presume che la vera mente sia Abu Muhammad al-Adnani, principale portavoce del califfato.
La comunicazione è affidata a veterani già in servizio per al-Qaeda e a giovani reclute esperte sulle piattaforme social, con una disciplina burocratica che ricorda quella dei regimi totalitari. Secondo gli intervistati, i telefoni e le telecamere che possedevano al momento dell’arrivo in Siria sono stati sequestrati per evitare che immagini non autorizzate e potenzialmente nocive potessero essere diffuse in rete.
Solo ai cameraman ufficiali è consentito di possedere delle telecamere e anche loro sono tenuti a seguire rigide linee guida sulla gestione dei materiali. Dopo una giornata di ripresa, devono caricare i filmati sui laptop, trasferirli nelle schede di memoria e consegnarli in appositi punti di raccolta.
Secondo i disertori, una delle sedi si trovava in una casa a due piani in un quartiere residenziale, vicino ad Aleppo. Il sito era protetto da guardie armate e l’accesso era consentito solo a coloro che possedevano regolare permesso da parte dell’emiro di zona.
Su ogni piano, c’erano quattro stanze piene di telecamere, computer e tecnologia avanzatissima, dichiara Abu Abdullah, 37 anni, che ha visitato occasionalmente il sito in qualità di addetto alla sicurezza e alla logistica. L’accesso a internet era assicurato da un servizio wireless turco.
La casa era una delle redazioni di Dabiq, patinata rivista online dello Stato Islamico. Si lavorava anche per al-Furqan, principale canale mediatico del gruppo terroristico, che diffonde la maggior parte dei video e degli annunci destinati al grande pubblico.
In tutto, c’erano oltre 100 persone assegnate a quell’unità, secondo il ricordo di Abu Abdullah. “Alcuni erano hacker, altri ingegneri.”
Abu Abdullah non lavorava direttamente nel settore della comunicazione, ma gli è capitato di svolgere mansioni in quell’ambito. Una volta, ha montato un generatore nella sede editoriale, per evitare blackout.
In un’altra occasione, ha dovuto recuperare dei cadaveri da un campo di battaglia e posizionarli per effettuare le riprese di video di propaganda che esaltassero il loro sacrificio estremo. Ha dovuto pulire il sangue essiccato, sollevare gli angoli della bocca dei combattenti per farli apparire sorridenti e sollevare il loro dito indice, nel gesto che è diventato simbolico della causa dello Stato Islamico.
L’ISIS è salito alla ribalta della cronaca presso il pubblico americano con il terribile video in cui Mohammed Emwazi, combattente mascherato, armato di coltello e con accento britannico, noto come “Jihadi John”, taglia la gola di alcuni ostaggi occidentali, tra cui James Foley e Steve Sotloff.
L’analisi di quello e di altri video rivelano un elevato livello di preparazione. Le discrepanze tra i vari fotogrammi dimostrano che le scene sono state provate più e più volte, nel corso di svariate ore.
C’è un’attenzione professionale alle luci, ai suoni, al posizionamento delle telecamere. In alcuni video, tra cui quello in cui si vede la decapitazione dell’americano Peter Kassig, potrebbero essere stati usati effetti speciali per creare uno sfondo drammatico alle immagini di Kassig e dei suoi uccisori.
Queste finezze nella produzione sono riservate ai video destinati al grande pubblico occidentale e particolarmente a quelli indirizzati al Presidente Obama. Ma secondo i disertori, anche le riprese degli eventi che non devono essere trasmessi su scala globale vengono preparati con la medesima perizia.
Abu Abdullah racconta anche di aver assistito a un’esecuzione pubblica nella città di Bab: il team addetto alla propaganda avrebbe supervisionato ogni singolo dettaglio. C’era un tabellone bianco con testi in lingua araba, una sorta di gobbo per gli ufficiali che dovevano leggere ad alta voce i presunti crimini dei condannati. Il boia incappucciato avrebbe sollevato e calato la spada più volte, per consentire alla troupe di riprendere la lama da diverse angolazioni.
La decapitazione è avvenuta solo quando il regista ha dato l’autorizzazione a procedere. Secondo Abu Abdullah, quindi, non è stato il boia a decidere il momento giusto per l’esecuzione, ma l’esperto di comunicazione.
Il brand
Per circa 20 anni, il principale “brand” dell’Islam militante è stato al-Qaeda. Ma lo Stato Islamico li ha eclissati nel giro di due anni, trasformando le strategie comunicative.
I video di Al-Qaeda esaltavano sempre i leader, soprattutto Osama bin Laden. Al contrario, la propaganda dell’ISIS si concentra in genere sui combattenti e i seguaci. Sono molto rare le apparizioni del capo dell’organizzazione, Abu Bakr al-Baghdadi, o dei suoi fedelissimi.
I video dello Stato Islamico non hanno lo stile pedagogico di quelli di al-Qaeda: sono cinematografici, enfatizzano le scene drammatiche, grazie a cambi di inquadrature ed effetti speciali.
“Il gruppo è attento alla propria immagine, come una grande multinazionale,” ha dichiarato un agente dei servizi segreti statunitensi incaricato di monitorare le attività mediatiche dell’ISIS. C’è un’attenzione così precisa alla diffusione del proprio brand che oramai dire “Stato Islamico” è come dire “Coca Cola” o “Nike”.
Secondo i disertori, la competizione con al-Qaeda in termini di propaganda è considerata una priorità assoluta. Un ex combattente ha raccontato che fu sottoposto a enormi pressioni da parte dell’organizzazione quando venne alla luce il fatto che suo padre era stato un alto ufficiale di al-Qaeda, ucciso in Pakistan da un drone della CIA.
Gli esperti di comunicazione dello Stato Islamico hanno chiesto alla recluta di dichiarare in un video la sua rinuncia all’organizzazione del padre, come lui stesso ci ha raccontato a condizione che né lui né il suo genitore fossero riconoscibili. Il suo rifiuto e la riluttanza a combattere contro gruppi affiliati ad al-Qaeda in Siria hanno compromesso la sua posizione nello Stato Islamico, mettendo a rischio la sua incolumità.
Il pubblico di Al-Qaeda è sempre stato molto paziente. Anche il ramo yemenita, più attento all’aspetto mediatico, impiegava mesi per pubblicare nuovi numeri della rivista online Inspire.
Al confronto, la frequenza e il volume delle pubblicazioni da parte dello Stato Islamico sono sorprendenti. Il gruppo ha prodotto centinaia di video in più di 6 lingue, trasmette quotidianamente su emittenti radiofoniche e viene menzionato circa 2 milioni di volte al mese su Twitter.
Twitter e Facebook si sono attivati per bloccare gli account associati allo Stato Islamico e impedire la diffusione dei messaggi, ma finora gli utenti hanno sempre trovato il modo di riapparire. Migliaia di seguaci si sono rivolti anche a nuovi siti, meno sottoposti al controllo governativo, tra cui Telegram, applicazione di messaggistica creata da un programmatore russo: dopo gli attacchi di Parigi, però, anche Telegram ha iniziato a bloccare gli account usati dallo Stato Islamico.
L’ISIS ha sempre sfruttato apparenti legami con i canali di comunicazione in Medio Oriente. In un video diffuso nel 2013, sembra di vedere un corrispondente di Al Jazeera che collabora con il cameraman Reda Seyam, militante legato ad ambienti terroristici, figura di spicco dello Stato Islamico.
Nell’ambito di un’analisi complessiva delle produzioni mediatiche diffuse la scorsa estate, Charlie Winter, che fino a poco fa era analista del Quilliam Group nel Regno Unito, ha enumerato 1.146 diversi prodotti di propaganda, tra foto, video e messaggi audio, comparsi nel corso di un mese.
Winter ha contato almeno 36 redazioni che rispondono al quartier generale dello Stato Islamico a Raqqa, con affiliati in Libia, Afghanistan e Africa Occidentale, riscontrando un coordinamento eccellente all’interno della rete.
Il 19 luglio ha notato che tutti gli affiliati avevano modificato contemporaneamente il logo, adottando la stessa scritta in arabo. L’icona appariva nella stessa posizione su ogni immagine e nel fotogramma iniziale di tutti i video.
“Si trattava chiaramente di un messaggio preciso,” ha dichiarato Winter in un’intervista. “Lo Stato Islamico cerca in ogni modo di apparire formale, con una rigida impostazione burocratica, perché è interessato ad essere percepito come uno Stato.”
All’interno del califfato, i tentativi di affermare la propria legittimità sono all’ordine del giorno.
Gli stessi video usati per sconvolgere l’opinione pubblica all’esterno sono trasmessi all’interno per intimidire i soggetti più renitenti. I seguaci ricevono un flusso costante di messaggi di convincimento in tono utopistico, in perfetto stile sovietico, che ribadiscono la superiorità dello Stato Islamico.
Non a tutti è consentito l’accesso a internet, ma nei quartieri vengono istallati maxi schermi da cui gli abitanti del califfato possono visionare i video approvati.
“È come un cinema”, racconta Abu Hourraira al-Maghribi, ventitreenne dalla testa rasata che indossava una felpa con cappuccio Adidas durante l’intervista in prigione. I video sono parte degli archivi dello Stato Islamico, e descrivono “la vita quotidiana, le esercitazioni militari e le decapitazioni.”
I video più popolari, tra cui quello in cui sono decapitati gli ostaggi occidentali e quello in cui viene arso vivo il pilota giordano in gabbia, sono mostrati a ripetizione.
Abu Hourraira dice di aver assistito a una di queste proiezioni in strada, vicino all’Università di Mosul, che aveva attirato circa 160 persone, tra cui almeno 10 donne e 15 bambini. Uno dei video mostrava un’uccisione eseguita da Emwazi, che potrebbe essere stato ucciso da un drone statunitense negli ultimi giorni.
“I bambini non distolgono lo sguardo, sono affascinati da quelle immagini,” continua Abu Hourraira. “Jihadi John è una figura così carismatica che alcuni bambini lo imitano nel vestire e indossano un’uniforme nera e una cintura con un coltellino.”
Gli Americani
Lo Stato Islamico tiene ben distinti i vari settori dell’unità di comunicazione. I cameraman non entrano in contatto con i produttori e i montatori che lavorano sul materiale girato, aggiungono titoli, effetti e colonne sonore. I nomi non vengono quasi mai modificati.
Ma Abu Hajer e altri due disertori sostengono che a curare alcuni tra i video più famosi c’era un americano sui 38 anni, bianco, con capelli brizzolati.
“È stato lui a realizzare il montaggio” dichiara Abu Hajer; l’uomo sarebbe stato anche l’ideatore di un documentario di 55 minuti dal nome “Fiamme di guerra”, diffuso alla fine del 2014. L’obiettivo del film è la costruzione di un apparato mitologico che ammanti l’origine dello Stato Islamico e ricostruisca la sua connessione con il califfato storico.
Finisce con le riprese dei soldati siriani che si scavano le tombe mentre un combattente mascherato, che parla inglese con accento nordamericano, avverte che “le fiamme dell’inferno non sono che all’inizio”.
Recentemente, è apparso un altro presunto americano, addetto alla lettura delle notizie di un emittente radiofonica che lo Stato Islamico ha sequestrato lo scorso anno a Mosul. Dopo gli attacchi di Parigi, è stata la sua voce a parlare in inglese e a descrivere la Francia come “la capitale della prostituzione e del vizio”, e ad annunciare che i governi coinvolti negli attacchi aerei in Siria “continueranno a essere in cima alla lista dei bersagli.”
Gi ufficiali statunitensi non sono riusciti a identificare quello speaker o gli altri membri con accento nordamericano. Sul suo sito, l’FBI ha chiesto aiuto pubblicamente per il riconoscimento del militante apparso nel video “Fiamme di guerra”.
I disertori
La propaganda incessante dello Stato Islamico ha contributo a una migrazione globale di militanti. Oltre 30.000 combattenti provenienti da più di 115 paesi sono arrivati in Siria dall’inizio della guerra civile. Almeno un terzo si è unito all’ISIS nell’ultimo anno, secondo i dati dell’intelligence degli Stati Uniti.
Tutti i disertori intervistati dal Washington Post, tranne uno, hanno dichiarato che la decisione di partire per la Siria è stata presa in seguito alla visione di video online, o di nuove amicizie sui social network, che hanno accentuato il loro spirito jihadista. Solo uno sostiene di essere stato spinto da un amico e di essere stato immediatamente arrestato per essersi rifiutato di combattere.
Abu Hourraira, che ha trascorso mesi a combattere in Iraq, racconta di aver iniziato a cercare online materiale sullo Stato Islamico quando il gruppo è salito alla ribalta della cronaca per le vicende legate alla guerra civile in Siria. Ha deciso di lasciare il lavoro in una lavanderia di Casablanca dopo la visione dei video del gruppo.
“Alcuni ricordavano i film di Van Damme,” ha dichiarato: il riferimento è a Jean-Claude Van Damme, star dei film d’azione hollywoodiani. “Vedere quei combattenti ti fa venire voglia di diventare uno di quei coraggiosi eroi.”
Come molti altri paesi nella regione, il Marocco tenta di prendere contromisure per bloccare questa pericolosa tendenza. Gli ufficiali di sicurezza marocchini hanno dichiarato che oltre 1.500 uomini hanno lasciato il Paese per andare a combattere in Iraq e Syria, oltre a circa 500 donne e bambini, che nella maggior parte dei casi si sono ricongiunti ai loro mariti, figli e padri.
Diversi attentatori di Parigi, tra cui il presunto ideatore, sono di origine marocchina, ma sono nati e cresciuti in Europa.
“La vera lotta va condotta contro le strategie di propaganda, che hanno un ruolo enorme in questa tendenza,” sostiene un ufficiale della sicurezza marocchino che ha parlato a patto di non poter essere identificato. Il reclutamento in Al-Qaeda avveniva soprattutto attraverso il contatto diretto nelle moschee o in altri luoghi, ma “adesso, il 90% dei membri viene reclutato online.”
I disertori offrono visioni contrastanti sulle possibilità del gruppo di resistere nel tempo. Secondo alcuni, in Iraq e in Siria ci sono già schiere di giovani uomini plasmati dalla loro propaganda e dalla loro ideologia e un’intera generazione di bambini educata all’idealizzazione dei militanti mascherati.
Ma tutti attribuiscono la decisione di lasciare l’Iraq e la Siria a una combinazione di fattori: da una parte, la paura per la propria incolumità e dall’altra, una sorta di disincanto nato dalla constatazione della divergenza tra la versione virtuale del califfato e la realtà.
Alcuni sono rimasti sconvolti da episodi particolarmente cruenti a cui hanno assistito e che non sono stati mostrati nei video. Abu Abdullah, che durante l’intervista indossava un cappuccio per nascondere la sua identità, sostiene di aver assistito a un’uccisione di massa nei pressi di Aleppo, con i combattenti dello Stato Islamico che sparavano contro una folla di Alauiti, tra cui c’erano molte donne e bambini.
Un bambino di 10 anni era sopravvissuto e il più alto in grado “prese un fucile e gli sparò”, ricorda Abu Abdullah. Il massacro è stato ripreso dalle onnipresenti telecamere, ma il video “non è stato mai diffuso.”
Abu Hajer, l’ex cameraman, dice che il suo sostegno al gruppo ha iniziato a vacillare quando ha contribuito all’amministrazione dei tribunali religiosi dello Stato Islamico. Avendo espresso opinioni contrastanti rispetto a quelle dei suoi superiori, ha gradualmente perso i benefici dovuti alla sua posizione.
“Mi hanno ritirato le armi, poi hanno smesso di erogare lo stipendio mensile” e mi hanno tolto villa e automobile. Un parente ha dichiarato al Washington Post che Abu Hajer si è deciso a lasciare laa Siria dopo aver ricevuto un avvertimento: un militante dello Stato Islamico ha mimato lo sgozzamento passandogli un dito sulla gola.
Un collega compiacente ha fornito ad Abu Hajer i documenti necessari a superare i checkpoint e a uscire dalla Siria. Un altro amico gli ha prestato il denaro necessario a imbarcarsi con la sua famiglia su un volo dalla Turchia. Le autorità marocchine lo stavano aspettando all’aeroporto di Casablanca.
Oggi condivide con altri militanti una cella affollata di un carcere di massima sicurezza in Marocco: è stato condannato a tre anni e deve scontarne altri due. Quando gli chiediamo se non si senta in colpa per aver contribuito, attraverso il suo lavoro, al reclutamento di altri membri, fornisce una risposta ambigua: “Per certi versi mi sento responsabile, ma non è dipeso certo solo da me.”
I suoi video continuano a circolare in rete. Nena News
Leggi la prima parte del reportage
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