Gli attacchi nei confronti dei soldati israeliani, da parte di guardie palestinesi rivelano le divisioni tra Netanyahu e l’esercito su come reagire.

A sinistra il presidente dell’Autorità palestinese, Mahmoud Abbas. A destra il premier israeliano Benjamin Netanyahu
di Jonathan Cook* Middle East Eye
Roma, 10 febbraio 2016, Nena News – Il presidente dell’autorità palestinese, Abu Mazen, ha definito ‘sacra’ la cooperazione tra le proprie forze di sicurezza e l’esercito israeliano. Ma un attacco armato a un check-point israeliano, sferrato questa settimana da una guardia palestinese e a seguito del quale sono rimasti feriti tre soldati israeliani, suggerisce che la visione di Abu Mazen potrebbe non essere condivisa dai molti palestinesi.
Il 34enne Amjad Sukari, autista e guardia del corpo del procuratore generale palestinese a Ramallah, è stato ucciso domenica dopo aver aperto il fuoco contro alcuni soldati israeliani, posizionati a un check-point preferenziale vicino a Ramallah. Si tratta della seconda negli ultimi questi mesi che un uomo appartenente alla sicurezza palestinese apre il fuoco su dei soldati israeliani. Due mesi fa, Mazen Ariba, membro dei servizi d’intelligence palestinesi, aveva ferito due israeliani – tra i quali un soldato – al check-point di al-Hizme, vicino a Gerusalemme.
Israele ha risposto all’attacco di Sukari con quella che è sembrata una punizione collettiva. Ovvero con la chiusura di Ramallah per un giorno, bloccando il centro politico ed economico della Palestina. Ramallah è anche il quartier general dei Servizi di Sicurezza Preventivi, l’élite dell’intelligence palestinese, incaricata di garantire la ‘stabilità interna’, ma meglio conosciuta per neutralizzare il dissenso e reprimere gli opponenti di Abu Mazen – soprattutto Hamas.
A tal proposito, si dice che gli ufficiali dell’esercito israeliano siano sempre più preoccupati dall’eventualità che dieci anni di ‘cooperazione’ tra i servizi di sicurezza di Gerusalemme e le autorità palestinesi possano bruscamente interrompersi. Amos Harel, analista militare per di Haaretz, ha scritto questa settimana che il maggiore coinvolgimento di alcuni membri dei servizi di sicurezza palestinesi è un “incubo che tormenta la Difesa israeliana da mesi”. Aggiungendo che l’intelligence d’Israele sta tentando di trovare un modo per identificare attraverso i social network coloro che potrebbero impugnare le armi contro Israele.
“Il pericolo è stato esacerbato dalla linea dura scelta dal governo di destra di Benjamin Netanyahu, sulla scia degli attacchi ad alto profilo di Sukari”, ha spiegato Shlomo Brom – ex generale israeliano ora ricercatore presso l’Istituto per gli Studi sulla Sicurezza Nazionale di Tel Aviv -, il quale ha aggiunto, parlando con Middle East Eye: “Stiamo assistendo a una polarizzazione tra gli alti ranghi della politica e quelli dell’esercito. Il governo vuole dimostrare ai propri sostenitori che ci sta andando pesante con i palestinesi – in quel senso è stata presa la decisione di chiudere Ramallah. Tuttavia, i timori dell’esercito sono che una punizione collettiva di questo tipo possa avere ripercussioni per noi e motivare ulteriormente i palestinesi, inclusi gli uomini dell’intelligence a partecipare agli attacchi. Creando quindi un circolo vizioso”. Brom ha poi concluso spiegando che la revoca del blocco su Ramallah, a un solo giorno dalla sua introduzione, è stato un segnale di come la linea militare abbia prevalso, ma anche di come la pressione politica si stesse intensificando.
Il commercio di armi
La fragile natura delle relazioni israelo-palestinesi sul tema della sicurezza è già stato sottolineato lo scorso mese, quando Netanyahu dichiarò al proprio gabinetto che Israele si sta preparando alla possibilità che l’autorità palestinese di Abu Mazen – dalla quale dipendono i servizi di sicurezza – sia prossima al collasso. La credibilità dell’Autorità Palestinese è andata gradualmente affievolendosi a seguito dell’arresto del processo diplomatico, e vi sono non pochi dubbi su quanto l’ultraottantenne Abu Mazen possa sopravvivere al potere. “Il collasso dell’Autorità Palestinese potrebbe lasciare decine di migliaia di agenti palestinesi senza leader né salario, aprendo al commercio delle loro armi personali – ha spiegato Brom – si potrebbe dunque ricreare una situazione analoga a quanto accade in Libia; con un grande quantitativo di armamenti potenzialmente utilizzabili contro Israele”.
In quella che alcuni hanno definito ‘nuova intifada’, o insurrezione, più di 155 palestinesi e 28 israeliani hanno perso la vita da ottobre; in una serie di attacchi che hanno avuto luogo in Cisgiordania, Gerusalemme Est e Israele. Fino ad ora, la maggior parte degli attacchi sono stati perpetrati da singoli palestinesi, utilizzando coltelli o lanciandosi alla guida di una macchina contro i posti di blocco israeliani: ‘lupi solitari’ incontrollabili tanto per le autorità israeliane quanto per quelle palestinesi. Tuttavia, a riprova del fatto che la natura degli attacchi potrebbe cambiare, tre giovani palestinesi originari di Qabatiya – vicino a Jenin, nella Cisgiordania settentrionale – hanno organizzato a Gerusalemme Est, nella giornata di mercoledì, ciò che un analista israeliano ha definito come “una complessa e sofisticata” operazione. Hanno utilizzato un mitra per sparare e due poliziotte israeliane alla Porta di Damasco – il principale punto di accesso alla città vecchia -, uccidendone una. Il gruppo non è poi riuscito a far esplodere degli ordigni artigianali che avrebbero dovuto completare l’attacco.
Duecento attacchi sventati
Dal punto di vista di Israele, il ruolo dei servizi di sicurezza palestinesi è quello di aiutare a neutralizzare gli attacchi che richiedono un tale livello di pianificazione. Utilizzando le proprie informazioni d’intelligence sul terreno contro i gruppi armati, prima che questi raggiungano il proprio obiettivo. Majid Faraj, a capo dell’intelligence palestinese, ha precisato molto chiaramente questo punto il mese scorso, in un’intervista rilasciata a un giornale statunitense. Parlando con Defense News, Faraj ha infatti spiegato che i propri uomini avevano prevenuto più di 200 attacchi contro Israele dallo scorso ottobre, confiscando grandi quantitativi di armi e arrestando oltre 100 palestinesi. E ha aggiunto che il collasso dell’autorità palestinese e dei propri servizi di sicurezza risulterebbe in un clima di “anarchia, violenza e terrorismo”. A seguito di questi commenti, Faraj è stato investito da un’ondata di disapprovazione all’interno della comunità palestinese, mentre il legislatore di Hamas ne ha chiesto il processo per ‘alto tradimento’.
A tal proposito, le dichiarazioni di Faraj hanno inoltre contribuito ad alimentare la convinzione palestinese che, senza un processo politico per stabilire uno stato palestinese, i servizi di sicurezza collaborano semplicemente con Israele perpetuando l’occupazione. Allo stesso tempo, Abu Mazen ha deciso di non condannare l’attacco perpetrato dall’agente Sukari, che ha avuto un funerale militare.Il criticismo nei confronti del ruolo dei servizi di sicurezza di Ramallah nell’aiutare l’esercito israeliano, mentre un gran numero di palestinesi rimane ucciso, ha fatto pressione su persone come Sukari.
E come Brom ha spiegato, gli ufficiali israeliani temono che l’attacco di Sukari possa suggerire atti d’imitazione tra altri agenti palestinesi. Tariq Dana, un professore di scienze politiche presso l’Università di Hebron, ha dichiarato che “nuovi attacchi potrebbero costituire una minaccia significativa per l’autorità palestinese; dato che è fondata su una dottrina che le richiede un ruolo egemone all’interno della propria società”. “Non ho dubbi che l’autorità palestinese cercherà di individuare chi tra le proprie fila potrebbe compiere gesti simili a quello compiuto da Sukari, per neutralizzarli o licenziarli – ha spiegato a Middle East Eye Adel Samara, analista politico con base a Ramallah – Ma temo che non possa fare più di questo”.
Il ruolo dell’addestramento statunitense
Lo scorso aprile, il consiglio centrale dell’OLP ha votato per sospendere il coordinamento con l’esercito israeliano, accusandolo di organizzare raid quotidiani nello stato palestinese. Abu Mazen ha tuttavia deciso di non implementare tale decisione. E dopo una serie di tentativi apparenti, ha affermato a dicembre che la collaborazione sarebbe continuata. Dal fronte israeliano, l’attacco di Sukari ha invece alimentato diversi timori sul fatto che l’attuale ondata di violenza possa in qualche modo ritracciare i giorni della seconda intifada, che scoppiò nel 2000.
In quel caso, gli accordi di sicurezza raggiunti ad Oslo nel 1993 si sgretolarono rapidamente; i servizi di sicurezza palestinesi si videro trascinare nella rivolta e l’esercito israeliano represse le proteste duramente. L’invasione israeliana delle aree controllate dall’autorità palestinese nei territori occupati portò alla distruzione diffusa di stazioni di polizia e prigioni; e la cooperazione fu ripristinata solo quando Abu Mazen ottenne la presidenza nel 2005, dopo la morte di Yasser Arafat. Abu Mazen decise quindi di disarmare i gruppi di resistenza palestinese e di trasformare le
forze di sicurezza in un mezzo per garantire stabilità. Quindi sia uno strumento di difesa per gli insediamenti e gli interessi israeliani nei territori occupati dalla resistenza palestinese, sia un espediente per proteggere l’élite delle autorità palestinesi; ha spiegato Dana.
L’organizzazione, che ha creato un ampio corpo di sicurezza, dalla polizia e varie agenzie d’intelligence a circa 6.000 guardie presidenziali, fu sostenuta con entusiasmo dagli Stati Uniti e dall’Europa. I dati statunitensi rivelano che tra il 2007 e il 2010, gli Stati Uniti hanno speso circa 500 milioni di dollari per riformare, addestrare ed equipaggiare i servizi di sicurezza palestinese. Il Pentagono ha inoltre potuto contare sull’aiuto egiziano per il rifornimento di armi, e della Giordania, che si occupa dell’addestramento militare. Israele vieta oggi nuovi reclutamenti.
Un miliardo di dollari in sicurezza
Dana ha inoltre spiegato come circa 65.000 palestinesi vengano pagati con il budget per la sicurezza. In base al rapporto di un uomo addetto alla sicurezza ogni 70 cittadini; il più alto al mondo. La spesa annuale in sicurezza dell’autorità palestinese corrisponde quindi al 30 % del suo budget complessivo; più di quanto non venga complessivamente speso in educazione, sanità e agricoltura. In proporzione, l’autorità palestinese spende significativamente di più di quanto non spendano gli Stati Uniti in difesa, e tre volte in più del Regno Unito.
Alcuni documenti riservati appartenenti all’Autorità palestinese – che coprono più di un decennio di negoziazioni israelo-palestinesi – hanno rivelato che Israele era inizialmente contrario alla decisione statunitense di sostenere le forze di sicurezza di Ramallah. Ancora nel 2010, il comandante Avi Mizrahi aveva pubblicamente dubitato della ragionevolezza di quelle politiche. “Questa è una forza militare addestrata ed equipaggiata dagli Stati Uniti – aveva dichiarato il generale israeliano – significa che all’inizio di una battaglia, dovremo pagare un prezzo più alto. Possono sferrare un attacco e non mi aspetto nemmeno che si arrendano così facilmente”. Tuttavia, l’esercito israeliano ha tratto grandi benefici da questa collaborazione, come testimoniano report annuali di più di mille operazioni congiunte ogni anno.
Meglio armati
I politici israeliani, da Netanyahu al leader dell’opposizione Isaac Herzog, hanno ripetutamente affermato che se mai dovesse esistere uno stato palestinese, questo dovrebbe essere demilitarizzato. Brom ha spiegato a tal proposito che i servizi di sicurezza palestinesi erano certamente meglio armati e addestrati dopo gli aiuti statunitensi, ma che comunque ponevano solo una minaccia limitata a Israele: “Utilizzano armi leggere, utili soltanto per operazioni di polizia interna, ma inutili in un confronto con un’armata regolare”. E ha poi aggiunto che Israele era stato molto attento a impedire alle forze di sicurezza palestinesi di diventare più forti, fornendo loro solo limitate informazioni d’intelligence. “Di fatto, preferiamo agire per conto nostro”, ha concluso.
Jeff Halper, un attivista e accademico israeliano, il cui ultimo libro, ‘War Among the People’, ha preso in esame le strategie militari dell’esercito d’Israele, sostiene che ‘esternalizzazione’ sarebbe la parola più adatta a descrivere i rapporti israelo-palestinesi sulle questioni legate alla sicurezza. “La questione più importante per Israele è che tutto sia costantemente sotto controllo – ha spiegato a Middle East Eye – delega all’autorità palestinese le operazioni sul terreno allo scopo di interporre una ‘forza cuscinetto’ tra i cittadini palestinesi e le forze di occupazione”.
“La morte di Abu Mazen o il collasso dell’autorità palestinese – ha aggiunto – produrrà un vuoto che Israele avrà molte difficoltà a colmare. Gerusalemme potrebbe decidere di affidarsi a un uomo forte, come Faraj o Mohammed Dalan, ma questi faticherebbero ad assicurarsi una qualche credibilità in assenza di un orizzonte politico”. Halper ha inoltre spiegato che Israele potrebbe anche reclutare collaboratori palestinesi per controllare le principali città. Ma se ciò dovesse fallire, si troverebbe immediatamente costretta a rioccupare la Cisgiordania. Secondo Brom, questo scenario causerà non poche difficoltà a Israele: “Avremmo bisogno di forze molto più ingenti per operare nei territori e per essere direttamente presenti in quelle aree; e
ciò creerebbe senza dubbio maggiori frizioni”. Nena News
* (Traduzione a cura di Giovanni Pagani)
È possibile leggere l’articolo originale qui
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