Il racconto dell’esperienza di vita e di lavoro di un gruppo di giovani volontari italiani nel villaggio palestinese sulla “linea verde” schiacciato dalle colonie israeliane in continua espansione
di Alessandra Pellegrini De Luca
Wadi Fukin (Betlemme), 12 settembre 2016, Nena News – Dietro il colpo d’occhio di due insediamenti che colano giù dalle colline di Wadi Fukin, c’è quello che significa vivere sotto occupazione, non poter spingere il proprio sguardo oltre la colonia. Wadi Fukin è un contesto rurale palestinese, un villaggio agricolo schiacciato tra la Green Line, che divide (almeno in linea teorica) Israele dalla Palestina, e l’insediamento israeliano di Beitar Illit. In linea teorica, visto che l’insediamento di Tsur Hadassah si espande a poco a poco oltre il confine della Green Line, costruendo mura di confine, mura di facciata, per poi distruggerle e costruire ancora un po’.
Quanto a Beitar Illit, esiste un sito web. Nella sezione “historical background” la si fa risalire all’Antica Roma e la si cita nel Talmud. Poi, un buco di duemila anni. E la (ri)costruzione del 1985, ben oltre lo Stato d’Israele. La storia di Wadi Fukin, quella che ha bisogno di essere raccontata, comincia nel 1948. La Nakba, la catastrofe, come la chiama la gente palestinese. Una diaspora, volessimo rendere l’idea in modo trasversale. Sono ancora nel villaggio i più anziani, quelli che ricordano i campi profughi in cui hanno vissuto dal 1948 fino a dopo la guerra del 1967. Nel 1972, infatti, poche famiglie sono riuscite a tornare, in una notte (per un ultimatum israeliano), e hanno rimesso i piedi, uomini e donne insieme durante i mesi successivi, tutto quanto. In quegli anni di esilio, i contadini avevano accesso ai loro campi solo in determinate fasce orarie, e il divieto assoluto di dormire in casa loro.
Wadi Fukin è stato un luogo invivibile. Lo racconta, attraverso mille episodi, il più anziano del villaggio: si chiama Joseph, ha 93 anni e siede all’ombra di un ulivo nel cortile della sua casa. È a due passi dalla sua abitazione precedente: è stata distrutta in quel periodo ed è ancora un rudere. Joseph, avvolto in un abito tradizionale arabo, con la testa coperta da un guthra bianco e da un okkal nero, parla lentamente, appoggiato al bastone. Sua moglie tace affianco a lui, come noi che lo ascoltiamo.
Trascorrere tre settimane a Wadi Fukin è stato, prima di tutto, un privilegio per il nostro sguardo. Come volontari di una piccola ong modenese, abbiamo vissuto una realtà abbastanza piccola per essere colta a pieno, abbastanza complessa per dar voce ai tanti aspetti che costruiscono un conflitto in cui torti, ragioni, alibi e prevaricazioni solcano sempre più a fondo la terra e chi vi sopravvive. Durante il nostro soggiorno, abbiamo avuto modo di condividere questa dimensione con gli abitanti del villaggio, lavorando la terra con loro.
Non si è trattato tanto di aiutare, non ce n’era alcun bisogno in questo senso, quanto di entrare in contatto con una realtà con qualcosa che andasse oltre la classica manifestazione, la classica visita, il classico incontro con un attivista, un membro di un’associazione, o peggio, un esperto. Vivere a Wadi Fukin ha significato per noi alzarci all’alba e dirigerci verso i campi con i contadini, sradicare erbacce con loro, sedere con loro all’ombra di un ulivo bevendo thè profumatissimo, mangiare con loro quando il caldo non permetteva di andare oltre, incontrare la sera chi passava per le strade del villaggio. Alla luce di questo, ha significato cogliere qualche aspetto fondamentale di quel che significa vivere sotto occupazione: ogni persona che abbiamo incontrato era una storia, e vivere con loro ha significato ascoltarle una per una. E non si finirebbe più di raccontarle, perciò daremo solo qualche immagine. Come quella dei ragazzi che, la mattina all’alba, si dirigono a lavorare sulle colonie, risalendo come formiche, in fila, la collina.
A Wadi Fukin, la situazione è kafkiana: il 60% dell’economia del luogo è agricola, ma le colonie stanno pian piano divorando il territorio. Col passare del tempo, la terra da lavorare è sempre più piccola e i più giovani finiscono per andare a costruire le stesse colonie che divorano le loro case. Per questo, a Wadi Fukin non prende piede nessun movimento di protesta: si tratterebbe di rivoltarsi contro se stessi. Per questo, allo stesso modo, alcuni rapporti s’interrompono: Mohammed, un contadino, ha chiuso i ponti con un suo amico, quando lui ha scelto di guadagnarsi uno stipendio come muratore nelle colonie. Dal canto suo, l’amico dice che non aveva altra scelta per mantenere la sua famiglia, non possedendo un campo.
E ha un che di gandhiano, quel lavoro nei campi con le colonie sullo sfondo. Mohammed, Mahmoud, Yousef, Omar: trascorrono metà della loro giornata chinati su una terra destinata a scomparire, coltivandola con cura certosin. E lo fanno con il rumore incessante delle ruspe sullo sfondo, con la collina costellata di case in costruzione, appena oltre le foglie di una pianta di melanzane. Continuano a farlo, anche quando i coloni scendono a provocare (e non sono i civilissimi israeliani di Gerusalemme: piuttosto, gente che ha trovato il modo di avere uno stipendio semplicemente occupando la terra emigrando dall’Est Europa, grazie a una qualche lontana parentela ebraica, grazie alle politiche di Netanyahu). Come durante la nostra prima mattinata di lavoro: una macchina di coloni è scesa nel campo, come accade spesso, spogliandosi per tuffarsi nella sorgente d’acqua del contadino, con schiamazzi e provocazioni, armati, aspettando una parola o una risposta per cominciare la rissa. Ma Abu Wael, nei cui campi stavamo lavorando, continuava a piantare cespi d’insalata in silenzio, raccomandandoci di fare lo stesso, fino alla rinuncia dei coloni, che sono risaliti in macchina e se ne sono andati.
È un conflitto a bassa tensione, quello che accompagna le vite della gente di Wadi Fukin. Una condizione quotidiana logorante, che lascia spazio a qualcosa di ancora più logorante: la rassegnazione. Una delle ultime sere trascorse a Wadi Fukin, la cosa ci è balzata agli occhi durante un incontro con i più giovani. Ibrahim, responsabile del PARC (Palestinian Agricoltural Relief Committes, ong palestinese operante nello sviluppo rurale) per il distretto di Betlemme, si è seduto con noi e i ragazzi del villaggio per discutere di eventuali progetti futuri. Aveva dietro le spalle un cielo di luci artificiali, arroccate una sopra l’altra sui palazzi della colonia, e di fronte, il gruppo di ragazzi.
C’è chi insegna la dabka (tipico ballo palestinese) ai bambini, chi insegna musica, chi calcetto. Alla proposta di unirsi e pensare in grande, uno di loro ha detto che mancano le prospettive, che non c’è futuro, che loro stessi subiscono l’occupazione. “Dovete smetterla di dire che subite l’occupazione: – ha risposto Ibrahim, mentre noi guardavamo due generazioni passarsi la palla del futuro – dovete combatterla”. “E non si combatte tirando le pietre – ha continuato – ma vivendo qui e smettendo di incentrare tutto su questo: dovete avere il coraggio di pensare al vostro futuro, e fede in un obiettivo che deve venire da voi, prima di tutto da voi, dovete coltivare il vostro tempo, smetterla di vittimizzarvi per questo”. Ibrahim indicava col dito la schiera arroccata dei brutti palazzi grigi nella colonia, come se non fosse un problema, parlando di futuro a loro, come a noi. Nena News