Un tribunale di Ramallah condanna il leader in esilio a 3 anni di reclusione, ma sorgono sospetti su una regia di Abu Mazen per allontanare il rivale
di Rosa Schiano
Roma, 17 dicembre 2016, Nena News – Un tribunale di Ramallah mercoledì ha condannato Mohammed Dahlan a 3 anni di carcere e ad una sanzione di sedici milioni di dollari con l’accusa di corruzione. “Una decisione che va inquadrata negli sforzi di Abu Mazen volti a emarginare i propri rivali politici”, secondo uno degli avvocati di colui che a lungo è stato l’uomo forte di Al Fatah ed a capo delle forze di sicurezza preventiva nella Striscia di Gaza, dove è nato e dove ha iniziato a costruire il suo potere. Quest’ultimo si è ampliato man mano anche grazie alla sua abilità nell’usare la propria influenza e i rapporti con i servizi segreti ma anche con Israele e Stati Uniti. Ben presto accusato di corruzione, espulso da Al Fatah nel 2011, Dahlan vive da allora negli Emirati Arabi.
La sentenza è arrivata a soli due giorni dalla decisione diAbu Mazen di togliere l’immunità parlamentare a cinque membri del Consiglio Legislativo palestinese –Dahlan ed altri quattro membri di Al Fatah, tra cui Jamal Tirawi, attivista del campo rifugiati di Balata a Nablus che avrebbe di frequente criticato le istituzioni dell’Autorità Palestinese – e di esporli così ad un processo. Le accuse mosse a Dahlan risalgono infatti a qualche anno fa, ma nel 2015 una corte palestinese aveva stabilito che non avrebbe potuto subire processi in quanto parlamentare e che solo il Consiglio Legislativo avrebbe potuto cancellare l’immunità.
Il mese scorso, la Corte Costituzionale palestinese ha invece concesso aMahmoud Abbas l’autorità di revocare l’immunità senza il consenso del parlamento, tra le critiche di organizzazioni per i diritti umani ed esperti di diritto che considerano questa sentenza contraria al diritto palestinese.
Secondo il tribunale Dahlan, da collaboratore di Abu Mazen, avrebbe sfruttato la sua posizione di coordinatore degli affari per la sicurezza nell’ufficio del presidente dell’Autorità Palestinese per intascare circa 16 milioni di dollari. Al di là delle accuse, che non dovrebbero sorprendere i palestinesi che da tempo sentono parlare della corruzione ai piani alti del potere, ciò che colpisce maggiormente è il modo in cui sia stato trascinato in un processo e condannato e che fa sì che nascano sospetti sulla legittimità della sentenza e sul sistema giudiziario palestinese che, per i sostenitori di Dahlan, avrebbe agito come braccio esecutivo del presidente.
La vicenda lascia intuire la guerra in atto all’interno del movimento al governo, una crisi acuita nelle ultime settimane dal sostegno manifestato dall’Egitto a Dahlan. Considerato uno dei favoriti tra i successori alla presidenza di Abu Mazen, sebbene i suoi consensi prevalgano a Gaza piuttosto che in Cisgiordania, probabilmente non tornerà in Cisgiordania per essere arrestato.
La sentenza appare così come un tentativo di mantenere Dahlan lontano dall’attività politica, secondo alcuni sostenitori. Lui non è rimasto fermo, tuttavia, in questi anni, tutt’altro. Ha curato rapporti con governi arabi e recentemente l’Egitto gli ha manifestato sostegno accettando la sua domanda di facilitare la vita dei palestinesi di Gaza, garantendo prima di tutto una maggiore apertura del valico di Rafah.
Che sia opera sua, è quanto Dahlan lascia credere ai palestinesi di Gaza. La recente apertura del valico infatti sarebbe stata percepita da Hamas come un cambiamento nella politica egiziana nei confronti della Striscia e come un gesto nei confronti di Dahlan. Notizie locali riferiscono che il presidente egiziano Al-Sisi si sia inoltre irritato con Abbas che avrebbe rifiutato la proposta egiziana di riportare Dahlan dentro al Fatah. Oltre all’apertura del valico, notizie locali hanno recentemente riferito della possibile creazione di una zona di libero scambio (“free-trade zone”) tra Gaza e l’Egitto. Jalila, moglie di Dahlan, ha inoltre iniziato a Gaza una serie di attività di beneficienza finanziate dagli Emirati Arabi a favore delle famiglie più deboli, un impegno apprezzato da molti.
Gran parte della popolazione di Gaza vive ancora le drammatiche conseguenze dell’ultima offensiva militare israeliana dell’estate del 2014, una quotidianità fatta di povertà, debiti, disoccupazione e assenza di prospettive per il futuro e soprattutto assenza di giustizia e di libertà. “La gente ora non pensa ai diritti del popolo palestinese, la gente ora pensa a come vivere”, ci ha detto un residente.
Il mutamento della politica egiziana nei confronti di Gaza andrebbe sicuramente a modificare le relazioni di Al Sisi con Hamas, ma il movimento islamico sembra per il momento stare a guardare, o meglio sembra voler tenere entrambe le porte aperte, con Abu Mazen e con Dahlan non volendo rinunciare ai benefici apportati a Gaza da quest’ultimo.
Hamas ha infatti partecipato al settimo congresso nazionale di Al Fatah che si è tenuto il 29 novembre a Ramallah, mentre Dahlan ne è stato escluso. La partecipazione di Hamas ha fatto sperare alcuni in un nuovo riavvicinamento tra le due formazioni; il movimento islamico ha sottolineato la propria volontà di cooperaree di prender parte alle decisioni che riguardano il popolo palestinese, ma resta un grande scetticismo sulla riuscita della rappacificazione a causa dei numerosi tentativi andati in fumo e sulle reali intenzioni dei due di perseguire sul serio gli interessi nazionali.
La partecipazione di Hamas ha ricevuto l’apprezzamento di Abu Mazen che il giorno successivo ha ringraziato Meshaal, capo dell’ufficio politico di Hamas. I due si erano incontrati a fine ottobre in Qatar, paese che, con la Turchia, sta spingendo verso la riconciliazione tra i due partiti. Alcuni credono che la presenza di Hamas al congresso sia stata la conseguenza di un accordo con Fatah di tener lontano Dahlan e che Hamas, partecipandovi, abbia scelto di stare dalla parte di Abbas piuttosto che di Dahlan.
Mentre Abbas conterebbe sull’appoggio di Qatar e Turchia, Dahlan conterebbe sul sostegno, oltre che dell’Egitto, degli Emirati Arabi, della Giordania e, in parte, dell’Arabia Saudita – il quartetto arabo che aveva fatto pressione su Abbas perché si riconciliasse con Dahlan. I programmi politici dei due non sembrano tuttavia differenziarsi e il contrasto si baserebbe sui propri interessi piuttosto che su quelli della collettività. In questo conflitto interno che appare sempre più una gara tra chi intende acquisire maggior potere, i diritti dei palestinesi sembrano fare solo da sfondo. Nena News