In un video diffuso dalla stampa israeliana si vedono estremisti ebrei ballare a una festa di matrimonio, inneggiando alla morte del piccolo Ali Dawabsha, bruciato vivo nella sua culla da coloni a luglio. Uno dei sospetti arrestati dopo la strage ha scritto un manuale su come appiccare incendi a chiese, moschee e case palestinesi. Eppure, il processo stenta a decollare
di Giorgia Grifoni
Roma, 26 dicembre 2015, Nena News – Che fine hanno fatto i killer della famiglia Dawabsha? Le autorità israeliane, che all’indomani della strage di Douma avevano promesso “tolleranza zero” nei confronti dei perpetratori, fanno tanta fatica a trovarli e ancora di più a inchiodarli. Dopo la notizia, un mese fa, dell’arresto di due persone e delle remore della magistratura israeliana nel rinviarli a giudizio per “mancanza di prove”, la parabola sembra chiara: nessuno sembra preoccuparsi particolarmente di consegnare degli assassini alla giustizia.
Questo è ancora più vero se si pensa che circa una settimana fa un video controverso aveva cominciato a circolare sulla stampa israeliana: le immagini mostravano frotte di allegri estremisti ballare brandendo coltelli e fucili a una festa di matrimonio, accoltellando occasionalmente una foto del piccolo Ali Dawabsha, 18 mesi, morto carbonizzato nell’incendio appiccato da coloni nella sua casa di Douma, vicino Nablus, lo scorso luglio.
Il video, in realtà, non costituisce una prova per il processo, ma rappresenta perfettamente l’atmosfera di impunità che regna in Israele nei confronti dei criminali ebrei: inneggiare alla violenza nei confronti degli “arabi” sembra tollerato dalle autorità israeliane, in barba agli allarmi sull’intolleranza e sull’antisemitismo che da sempre Israele lamenta nei confronti dei suoi cittadini e di tutti gli ebrei.
Razzismo a parte, resta un mistero come lo Shin Bet non riesca a trovare i responsabili in ambienti così coesi e apertamente sospetti, nei Territori occupati come in Israele. Se è vero che quattro persone appartenenti alle frange dell’estremismo ebraico sono state poste in detenzione amministrativa subito dopo l’attacco ai Dawabsheh, è anche vero che a quasi sei mesi di distanza il ministro della Difesa Moshe Yaalon ha dichiarato che non ci sono “prove sufficienti” per incriminarli.
Deve essere veramente difficile per i pm israeliani venire a capo del caso, soprattutto quando uno dei sospetti posti in detenzione amministrativa è l’autore di un libro, “Regno del Male”, un vero e proprio manuale di istruzioni che spiega come bruciare moschee, chiese e case palestinesi, oltre a istruire gli adepti a formare “cellule segrete” per “santificare il nome di Dio” e “tenere la bocca chiusa durante gli interrogatori”.
Secondo Tal Mimran, ricercatore di sicurezza nazionale presso l’Istituto di democrazia israeliano sentito dall’Ap, il trattamento di impunità di cui godono gli estremisti ebrei sul campo – per esempio, durante l’occupazione delle colline di proprietà palestinese da parte della famosa “gioventù delle colline”, che mira a istituire nuovi avamposti ebraici illegali – può aver causato il protrarsi delle indagini, assieme alla mancanza di prove “fisiche” dell’attacco. Ottenere una confessione, poi, è difficile, perché – spiega Mimran – i sospetti ebrei “conoscono bene il sistema e sono ben coscienti dei loro diritti legali, al contrario del palestinesi”.
Sebbene i familiari dei sospetti estremisti abbiano denunciato “l’uso della tortura da parte dello Shin Bet per estorcere confessioni e chiudere il caso”, le analogie con i palestinesi finiscono qua. Nell’ondata di violenza che da tre mesi scuote i Territori occupati, infatti, per i palestinesi non c’è posto per impunità né per ritardi nelle indagini. Anzi, per velocizzare le operazioni di giustizia, si è assistito all’eliminazione dell’intero iter penale. Molti degli oltre 120 giovani uccisi dalle guardie israeliane sono stati infatti assassinati immediatamente sul posto, senza processo, anche quando non costituivano una minaccia diretta. Nena News
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