I sondaggi sono un’industria crescente, ma invece di cambiare un sistema disfunzionale, i risultati sono spesso usati come mero strumento politico
di Alaa Tartir – Middle East Eye
Ramallah, 2 novembre 2016, Nena News – I Territori Palestinesi Occupati sono una “repubblica degli istituti di sondaggio”. Negli ultimi 20 anni, i sondaggi di opinione sono diventati un’industria che attrae attori locali, regionali e internazionali.
I risultati di questi sondaggi danno un’indicazione generale dell’“umore pubblico”, ma non vengono presi seriamente dagli stakeholder nei processi di pianificazione socio-politica e decisionali. Sono usati solo su basi ad-hoc o per riempire i titoli dei giornali soprattutto quando rivelano risultati interessanti legati ai diritti dei rifugiati, al dibattito uno Stato contro due Stati o agli attesi risultati delle elezioni.
Non dovrebbe sorprendere visto che i risultati dei sondaggi di opinione non cambiano un sistema politico se questo nega spazio alla voce della gente o alle “voci dal basso”. Ad esempio, nonostante l’importanza e la centralità della domanda “chi voterai alle prossime elezioni”, elezioni parlamentari parziali si sono tenute soltanto nel 1996 a Gaza e in Cisgiordania e nel 2006, quelle che hanno portato alla divisione e frammentazione intra-palestinese.
Inoltre, i risultati di questi sondaggi vengono regolarmente abusati e usati male dall’élite politica per interessi di parte e per la propria agenda. Sono poi schiavi di condizioni metodologiche e limitazioni che vanno tenute seriamente in considerazione quando si analizzano i risultati.
Scavare a fondo
Un recente sondaggio del Jerusalem Media and Communication Center (Jmcc) “Politica, educazione e futuro” ha intervistato mille giovani tra i 15 e i 29 anni in Cisgiordania (625) e a Gaza (375) tra il 28 settembre e il primo ottobre.
Come descritto nel rapporto del sondaggio, i risultati rivelano che un’ampia percentuale degli intervistati considerano Hamas responsabile del rinvio delle elezioni dei consiglio locali e la maggioranza dice che c’è bisogno di mantenere l’Autorità Nazionale Palestinese nonostante definisca le sue performance “negative”.
I media hanno enfatizzato questi risultati, ma è necessaria un’analisi più profonda e problematica. Il sondaggio del Jmcc si è svolto in un periodo particolare, con i palestinesi di Cisgiordania e Gaza preoccupati per quello che può accadere dopo la presidenza di Mahmoud Abbas a causa della faida interna a Fatah, per la perpetuazione di tendenze autoritarie sia dentro Hamas che dentro Fatah e per “la cultura della paura” che è stata creata.
Indubbiamente, questi fattori hanno un impatto sui risultati, come altre questioni metodologiche legate al modo in cui i risultati sono stati presentati e alle opzioni offerte agli intervistati.
Dipinti dai numeri
Per cominciare il sommario del sondaggio suggerisce che un’ampia percentuale (24.1%) degli intervistati considera Hamas colpevole di aver provocato il rinvio del voto locale. Ma si tratta di una conclusione problematica ed erronea. Nello stesso sondaggio il 18.8% condidera Fatah responsabile e il 10.3% l’Anp. È universalmente noto che Anp e Fatah sono le due facce della stessa medaglia e sono sinonimi l’uno dell’altro. Quindi, nella pratica il 29.1% degli intervistati considerano Anp/Fatah responsabili e non Hamas.
Un risultato sensibilmente diverso da quello raccontato dalla stampa, un fatto che dovrebbe sollevare dubbi su come questi “impacchettamenti” dei risultati dei sondaggi vengano usati – o abusati – dai politici per generare certe percezioni pubbliche che non sono necessariamente accurate.
In secondo luogo, il sondaggio indica che la maggioranza degli intervistati (63.8%) ritiene che perpetuare e mantenere l’Anp è necessario contro chi invece ne preferisce la dissolvenza (27%). Questa dicotomia riflette un’analisi bianco-nero che non riflette la più complessa realtà.
Se agli intervistati fosse stata data una terza opzione come “ridefinire i doveri e le responsabilità dell’Anp”, i risultati sarebbero stati significativamente diversi. La dicotomia perpetuare contro dissolvere è politicalmente e metodologicamente problematica perché impone certi assunti che non sono necessariamente validi.
È anche vitale tenere a mente che quasi un milione di palestinesi sono finanziariamente dipendenti dall’Anp, direttamente e indirettamente, da cui l’ampia percentuale di voci che chiede il mantenimento dell’Autorità Nazionale. Queste voci hanno un interesse nel mantenere il “business” nonostante le cattive performance dell’Anp, che loro stessi riconoscono.
Da ogni punto di vista, la valutazione delle prestazioni non ha quasi senso nel sistema politico palestinese visto che non esistono meccanismi di responsabilità o di pesi e contrappesi. Se le qualifiche, la professionalità, la credibilità e la reputazione fossero realmente usate come base di valutazione, allora l’attuale leadership (soprattutto di Hamas e Fatah) e i loro programmi e approcci sarebbe stata sostituita tempo fa visto il loro record di fallimenti nell’onorare le aspirazioni del popolo palestinese.
Crisi di legittimità
La paura del caos nel caso di dissolvimento dell’Anp è un altro fattore che non possiamo non considerare, soprattutto perché ai palestinesi è negata ogni forma di “transizione democratica”. Affrontare i legittimi timori del popolo palestinese richiederebbe un sistema politico efficiente e sensibile alle esigenze popolari.
Ma questo non accadrà fino a quando le principali modifiche socio-politiche a livello nazionale si svolgeranno sotto – e nonostante – l’occupazione militare israeliana.
Infine due altri indicatori vanno segnalati. Prima di tutto il 47.2% degli intervistati ritiene che il rinvio delle elezioni amministrative “non fa alcuna differenza” e, in secondo luogo, il 33% non si fida di nessuna fazione politica o religiosa. Questi dati forniscono l’ulteriore prova della crisi di legittimità dello scenario politico palestinese e la distanza tra la gente e l’élite politica.
Mostrano anche che il popolo palestinese è lontano dal cuore del proprio sistema politico e che l’idea di tenere elezioni all’interno di queste dinamiche di potere e di contesto politico come espressione di democrazia è fondamentalmente imperfetta.
Altri prerequisiti sono urgentemente necessari perché si tengano elezioni con un senso. Una lettura critica del risultati del recente sondaggio del Jmcc indica che il voto, all’interno delle attuali strutture, non sarà una panacea per affrontare le dimensioni stratificate della crisi di legittimità e fiducia. Al contrario, riprodurrà gli stessi problemi e creerà una “legittimazione nominale” che maschera la realtà, l’annullamento della democrazia. Parlare di democraiza in un contesto non democratico è pericoloso quanto lo stesso autoritarismo.
Alaa Tartir è il direttore di Al Shabaka
Traduzione a cura della redazione di Nena News