Questa scelta avrebbe conseguenze terribili e irreversibili, scrive il commentatore Ramzy Baroud
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di Ramzy Baroud
(traduzione di Romana Rubeo)
Ramallah, 2 febbraio 2017, Nena News – Il neoeletto Presidente degli Stati Uniti Donald Trump potrebbe invertire una tendenza che ha dominato il corso della storia negli ultimi 100 anni. L’inesperto e demagogico politico non sembra capire il pericolo insito nello spostamento dell’Ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. Una simile decisione getterebbe ancora più nel caos una regione già fortemente instabile.
Il provvedimento, che sarebbe ancora in “fase embrionale”, non è di natura esclusivamente simbolica, come ingenuamente riportato dalla stampa mainstream occidentale. È vero che la politica estera americana si è fondata quasi esclusivamente sulla sua potenza militare e non su considerazioni di natura storica.
Ma Trump, noto per il suo carattere impulsivo e avventato, rischia in questo modo di eliminare anche quel minimo di buon senso che aveva determinato la condotta statunitense in Medio Oriente.
Se il Presidente dovesse concretizzare il suo piano, incurante degli appelli dei Palestinesi e delle sollecitazioni della comunità internazionale, potrebbe pentirsi per le inaspettate conseguenze di tale azione.
Quest’anno ricorre il centesimo anniversario dell’occupazione della città araba palestinese di Gerusalemme, da parte delle forze britanniche guidate dal Generale Sir Edmund Allenby. Quell’infausto evento, avvenuto nel dicembre del 1917, aveva compromesso l’equilibrio culturale e politico che regnava Palestina da circa un millennio.
Aveva inoltre dato avvio a una guerra, tra le più lunghe e sanguinose della storia moderna. Sebbene la Palestina fosse stata sottratta al controllo dell’Impero Ottomano, i nuovi dominatori britannici avevano compreso l’importanza che Gerusalemme rivestiva agli occhi del suo popolo.
Questa consapevolezza era stata sempre presente: anche al momento della firma dell’accordo Sykes-Pycott, nel maggio 2016, che definiva le varie sfere di influenza sui territori ottomani, Gerusalemme era stata lasciata sotto l’amministrazione internazionale, in virtù dell’alto valore religioso che rivestiva.
Più volte, nel corso della storia, è stato posto l’accento sulla neutralità di Gerusalemme; come nel 1922, quando la Società delle Nazioni assegnò ai Britannici il mandato politico sulla Palestina, o nel novembre del 1947, quando la risoluzione delle Nazioni Unite stabilì di dividere la Palestina in due Stati, uno arabo e l’altro ebraico.
Mentre lo Stato di Palestina non fu mai istituito (a causa dei numerosi ostacoli posti dagli Stati Uniti e da Israele), quello di Israele divenne una realtà nel maggio del 1948. Qualche mese dopo l’armistizio, nel dicembre del 1949, Israele proclamò Gerusalemme sua capitale.
Fu allora che l’apparato mitologico biblico fu rimodellato per adattarsi a esigenze di natura politica.
La Knesset dichiarò, nel gennaio del 1950, che “Gerusalemme era, e sarebbe stata sempre, la capitale di Israele”. Quei verbi, “era” e “sarebbe sempre stata” fanno riferimento a un’interpretazione falsata della storia che non trova giustificazione nel moderno diritto internazionale, che Israele ha comunque sempre ignorato.
Dopo 1.500 anni di dominazione cananea sulla Palestina, il territorio compreso tra il Fiume Giordano e il Mar Mediterraneo subì diverse invasioni, da parte dei Filistei, degli Israeliti, dei Fenici, degli Assiri, dei Babilonesi, dei Persiani, dei Macedoni, dei Romani, degli Arabi, dei Crociati, per essere poi dominato da diversi Califfati Islamici tra il 1291 e l’inizio del Mandato Britannico, nel 1922.
Il controllo israelita sulla regione durò a malapena 77 anni e sembra alquanto inverosimile che gli odierni Ebrei israeliani abbiano legami di discendenza con le popolazioni che vissero in Palestina oltre 2.000 anni fa.
Ma questa argomentazione non viene recepita dalla moderna mitologia nazionalistica israeliana, oggi caldeggiata dall’estrema destra e dai fanatici religiosi negli Stati Uniti e in Israele.
Nel 1967, Israele ha occupato il resto della Palestina Storica, anche la parte orientale della Città di Gerusalemme, annessa nel 1980. La comunità internazionale ha condannato a più riprese l’occupazione, soprattutto in relazione alla città.
Diversi Stati, anche tra quelli storicamente alleati di Israele (primo fra tutti gli Stati Uniti) non riconoscono la sovranità su Gerusalemme e rifiutano l’invito a spostare le loro ambasciate da Tel Aviv alla città, illegalmente occupata.
Nei confronti di Gerusalemme, la politica degli Stati Uniti è stata alquanto contraddittoria. Dal 1995, sussiste una divisione tra il Congresso, storicamente filo-israeliano, e la Casa Bianca, anch’essa filo-israeliana ma con caratteri di maggiore pragmatismo. Nell’ottobre del 1995, il Congresso aveva approvato il Jerusalem Embassy Act. Votato da una schiacciante maggioranza alla Camera e al Senato, definiva Gerusalemme “la capitale indivisibile dello Stato di Israele” e invitava il Dipartimento di Stato a spostarvi l’Ambasciata daTel Aviv.
La Presidenza, in quel caso, aveva contestato tale violazione del protocollo: una simile decisione, infatti, spettava al potere esecutivo e non ai politici tenuti sotto scacco dalle influenti lobby filo-israeliane di Washington.
C’è un altro punto da analizzare: se gli Stati Uniti dovessero ignorare l’opinione della comunità internazionale sulla questione, perderebbero credibilità nel loro ruolo di “mediatori per la pace” e sarebbero lasciati soli ad affrontare le possibili conseguenze, la maggiore instabilità politica e una eventuale ondata di violenza.
Se è vero che Gerusalemme ha un valore spirituale fortissimo per Musulmani, Cristiani ed Ebrei, è altrettanto vero che essa ha rivestito in modo continuativo un ruolo fondamentale per i Cristiani e i Musulmani Palestinesi, fino a diventare un centro economico, politico e culturale che non ne permette un controllo esterno.
Da molti anni, le amministrazioni che si sono succedute sotto i Presidenti Bill Clinton, George W Bush e Barack Obama hanno sottoscritto un atto di rinuncia che rimandava l’entrata in vigore del decreto del Congresso di 6 mesi in 6 mesi.
L’ultima firma, da parte dell’ex Presidente Obama, risale al 1 dicembre 2016.
In campagna elettorale, Trump ha fatto tante promesse, spesso contradditorie. Inizialmente, si era impegnato a mantenere una certa equidistanza tra Palestinesi e Israeliani, salvo poi rivedere la sua posizione e avvicinarsi a quella dell’attuale governo di destra di Tel Aviv.
Oggi, l’opportunista magnate immobiliare entra alla Casa Bianca con una visione del problema praticamente sovrapponibile a quella dell’attuale governo israeliano e degli ultra-nazionalisti.
“Ormai, gli ambasciatori dei due Paesi potrebbero tranquillamente scambiarsi di posto,” ha scritto il professore Palestinese Rashid Khalidi sul New Yorker.
“L’Ambasciatore israeliano a Washington, Ron Dermer, cresciuto in Florida, potrebbe essere tranquillamente l’Ambasciatore Statunitense in Israele, mentre David Friedman, recentemente nominato da Trump, in virtù dei suoi stretti rapporti con il movimento dei coloni israeliano, sarebbe un ottimo Ambasciatore a Washington per il governo di Benjamin Netanyahu.”
La destra israeliana è in un momento di grande euforia. Non solo non si fanno più riferimenti superflui al “processo di pace” o allo Stato Palestinese: adesso hanno il via libera per la costruzione di insediamenti illegali a Gerusalemme occupata.
La Knesset approva di continuo nuovi decreti per annettere quegli insediamenti che sono illegali anche secondo la normativa israeliana e per abolire qualsiasi limitazione alla costruzione e all’espansione di nuove colonie.
L’Amministrazione Trump non si mostra preoccupata; al contrario, queste azioni sono in perfetta armonia con i nuovi organismi legislativi ed esecutivi statunitensi.
Il problema è che gli USA si stanno discostando dalla visione internazionale (e da quella occidentale, finora a guida statunitense) sul conflitto palestinese. Nel corso della Conferenza di Pace di Parigi, il 15 gennaio, il Ministro degli Esteri francese Jean-Marc Ayrault ha messo in guardia Trump dalle “gravissime conseguenze” che potrebbero discendere dallo spostamento dell’Ambasciata.
La Francia e gli altri Paesi europei sono consapevoli che tale decisione porrebbe fine al “processo di pace” guidato dagli Stati Uniti e quindi anche alla tesi, finora piuttosto inconsistente, della soluzione “Due popoli due stati”.
Questo, ad ogni modo, sarebbe l’ultimo dei problemi, visto che la farsa del “processo di pace” e della “two-state solution” è stata solo un investimento americano per mantenere una posizione di forza e una certa sfera di influenza sul conflitto in Palestina.
Gli Stati Uniti, e gli alleati occidentali, avrebbero potuto raggiungere un accordo di pace equo se quella fosse stata davvero una priorità. Non ci sono riusciti nel corso di 25 anni, a partire dalla Conferenza di Madrid nel 1991, per finire con la pietosa Conferenza di Parigi del 15 gennaio.
Eppure, nonostante gli insuccessi del passato, la scelta azzardata di spostare l’ambasciata statunitense da parte dell’amministrazione Trump potrebbe scatenare un vero e proprio incendio politico in Medioriente, con conseguenze terribili e irreversibili.
I Palestinesi e gli Arabi sanno perfettamente che non si tratta di un gesto meramente simbolico, ma della volontà di dare carta bianca a Israele per prendere il completo controllo sulla città e sui suoi siti sacri, portando a termine la pulizia etnica dei Musulmani e dei Cristiani Palestinesi.
Non c’è dubbio che questa escalation scatenerebbe un’ondata di violenze. Gli interessi degli Stati Uniti sulla regione potrebbero risentire a lungo di una mossa tanto imprudente, condannata congiuntamente dalle autorità politiche e religiose Palestinesi. Un importante dirigente l’ha definita una dichiarazione di guerra ai Musulmani.
Considerando l’importanza che Gerusalemme riveste per i Musulmani e i Cristiani in Palestina e nel resto del mondo, Trump potrebbe accendere una miccia con conseguenze disastrose sulla sua già contestata Presidenza.
Mentre i media mainstream occidentali prevedono già “un’ondata di violenze da parte dei Palestinesi”, nel caso in cui l’ambasciata fosse spostata, la nuova amministrazione statunitense dovrebbe ragionare attentamente prima di imbarcarsi in un’impresa tanto autodistruttiva.
Il fatto che Trump voglia invertire la rotta rispetto al suo predecessore non dovrebbe indurlo a generare nuova violenza e a gettare ulteriormente nell’abisso una regione già fortemente instabile.