Le palestinesi imprigionate vengono derise per aver trascurato il loro “ruolo tradizionale” e sono private di supporti psicologici
di Samah Jabr* Middle East Eye
* (Traduzione di Valentina Timpani)
Roma, 17 giugno 2020, Nena News – In L’an V de la révolution algérienne, Frantz Fanon descrive la mentalità coloniale francese in Algeria: “Se vogliamo distruggere la struttura della società algerina, la sua capacità di resistenza, dobbiamo prima di tutto conquistare le donne; dobbiamo andarle a cercare dietro i veli sotto cui si nascondono e nelle case dove gli uomini le tengono lontane dallo sguardo altrui”.
In Palestina, l’oppressione israeliana sugli uomini e sulle donne differisce in termini di impatto. Gli uomini, a causa della loro maggiore presenza nella sfera pubblica, sono esposti alla violenza legata all’occupazione mentre le donne vengono prese di mira in altri modi. L’oppressione e il colonialismo esasperano le disuguaglianze di genere preesistenti, mentre la violenza politica incoraggia un’attitudine “protettiva” che ostacola le donne nella partecipazione alla vita comunitaria.
L’occupazione indebolisce la mascolinità dei palestinesi con pratiche di umiliazione e denigrazione. Un uomo la cui dignità viene presa d’attacco a un checkpoint facilmente trasferisce il senso di sconfitta su qualcuno più debole di lui, spesso una donna a casa.
Istigare il disprezzo
L’impoverimento dilagante delle famiglie sotto l’occupazione, e il presentimento di un futuro cupo, spingono le ragazze in giovane età a sposarsi e i ragazzi ad abbandonare la scuola.
Le donne vengono ulteriormente insultate, basti pensare che i politici israeliani descrivono i loro uteri come bombe a orologeria demografiche, a mano a mano che il tasso di natalità palestinese cresce. Un pregiudizio del genere può impedire l’accesso agli ospedali per le donne incinte, facendole partorire ai checkpoint, con tragici tassi di mortalità sia per i neonati che per le madri, come riporta Lancet.
Le strategie di genere sono anche comunemente usate per screditare le attiviste palestinesi, spogliandole della loro femminilità e della loro posizione sociale, e incitando gli uomini a disprezzarle.
Nel 2018 un post su Facebook di un portavoce dell’esercito dell’occupazione israeliana, per esempio, riportava il seguente messaggio insieme alla fotografia di una manifestante palestinese di Gaza: “La donna buona è la donna onorevole, che si prende cura della casa e dei bambini e gli fa da buon esempio. Al contrario, la donna a cui manca l’onore non si preoccupa di queste cose, si comporta in modo selvaggio in contrasto alla sua natura femminile e non si interessa di come viene vista nella società”.
Commentare l’onore e il ruolo “naturale” delle donne rinforza gli iniqui stereotipi di genere e scoraggia le donne dall’azione politica. Alle società e alle famiglie viene dunque ricordato di limitare le donne ai ruoli “tradizionali” per proteggerle da violenze e abusi.
Prigioniere politiche
La discrepanza di genere è forse maggiore, tuttavia, nell’esperienza dei prigionieri politici. Lavoro con ex detenute fornendo loro supporto psicologico e assistendole con la documentazione legale e ho imparato molto su come il sistema militare israeliano usi strategie di genere e insinuazioni legate a tabù culturali per fare pressione sulle prigioniere e più in generale nella società palestinese.
Per decenni sotto l’occupazione israeliana migliaia di donne palestinesi sono state arrestate; così come gli uomini, vengono imprigionate a causa del loro attivismo o trattenute per fare pressione su parenti attivisti. A volte, le urla delle donne sottoposte agli “interrogatori” vengono usate per costringere fratelli, mariti o figli a confessare.
L’estate scorsa, Mais Abu Ghosh, una studentessa universitaria, è stata torturata per un mese; quando i genitori sono stati portati al centro interrogatori, non l’hanno riconosciuta. Lo scambio di assorbenti e carta igienica in cambio di informazioni sono pratiche comuni, così come lo sono le perquisizioni a cui sono state sottoposte molte prigioniere.
Le detenute soffrono specialmente per la distruzione dei legami sociali, spesso presenti fuori al territorio occupato nel 1967, in violazione all’Articolo 76 della Quarta Convenzione di Ginevra. Ai parenti vengono spesso negati i permessi per fargli visita.
‘Ho paura’
Alle prigioniere viene anche negato il supporto psicologico nel momento in cui ne hanno maggiormente bisogno. A gennaio 2018, Israa Jaabis, una madre palestinese di Gerusalemme accusata di tentato omicidio dopo che la sua macchina è esplosa vicino a un checkpoint israeliano nel 2015, scrisse una dolorosa lettera in cui lamentava che le autorità in prigione le avevano impedito di vedere il figlio ed esprimeva il suo profondo bisogno di aiuto psicologico.
“Ho paura quando mi guardo allo specchio, quindi immaginate cosa devono provare gli altri quando mi guardano” ha scritto, rimarcando che i suoi bisogni medici e psicologici sono stati ignorati, nonostante le regole delle Nazioni Unite che affermano che le autorità carcerarie “devono sforzarsi di assicurare che [le detenute abbiano] accesso immediato al supporto o assistenza psicologica specializzata”.
Le prigioniere soffrono anche a causa di quello che succede fuori la prigione. Ogni volta che incarcerano un uomo, c’è spesso una donna sovraccarica che ne compensa l’assenza; ma quando a finire dietro le sbarre è una donna, il suo essere madre viene messo in discussione e suo marito sotto pressione affinché si trovi una nuova moglie che faccia da “madre ai suoi figli”.
Nonostante non venga detto apertamente, persiste l’idea che una detenuta sia criticabile per aver abbandonato i figli. Un silenzio assordante circonda la possibilità che sia stata molestata sessualmente in prigione.
Mentre gli uomini palestinesi vengono generalmente celebrati dopo essere stati scarcerati, le donne nella stessa situazione affrontano ulteriori difficoltà per trovare un lavoro, avere una relazione e assumere un ruolo attivo in una società sempre più “protettiva”.
Violenza strutturale
L’oppressione in Palestina si presenta su diversi fronti, attraverso i quali la violenza strutturale e la repressione politica ostacolano le libertà delle persone. Le donne – specialmente le attiviste e le ex detenute – affrontano una moltitudine di lotte che si intersecano nel loro viaggio verso la liberazione.
I movimenti femministi non hanno preso parte alla difesa dei diritti delle detenute palestinesi, ma sono queste risorse di potere che possono portare alla luce le dimensioni di genere dell’occupazione in Palestina e assicurare che tali diseguaglianze e sistemi di oppressione non vengano ignorati.
I palestinesi dovrebbero sfidare queste dinamiche, che indeboliscono la nostra capacità di resistere all’occupazione e ci sottomettono ulteriormente. Il genere divide il potere. La mancanza d’influenza delle donne contribuisce al colonialismo e ad altre relazioni di potere che si basano su classe ed etnie.
Più flessibilità nei ruoli di genere accrescerebbe la resilienza dei palestinesi di fronte al trauma, liberando le donne da una prigione interna così che possano diventare agenti attive di cambiamento e resistenza. Nena News