Gli israeliani per lungo tempo hanno appoggiato lo status quo nel conflitto con i palestinesi; il 2014 potrebbe essere stato l’anno in cui hanno scoperto di avere sbagliato tutto, scrive l’analista israeliano Meron Rapoport
di Meron Rapoport – Middle East Eye
Durante l’ultimo conflitto a Gaza, ho avuto conversazioni quasi quotidiane con un mio collega di Betlemme. Erano colloqui cupi, pieni di paura, sgomento e vergogna. Ma un pensiero condiviso ci dava una qualche speranza per il futuro, che prima o poi la gente avrebbe ripensato alla guerra di questa estate e avrebbe detto che si è trattato di una svolta che ha cambiato le relazioni tra israeliani e palestinesi così come la guerra del 1973 ha cambiato le relazioni tra Israele ed Egitto.
Quando la guerra è finita, il 26 agosto, tuttavia, i nostri discorsi sono sembrati più pii desideri che giudizi realistici: l’assedio di Gaza è continuato e la politica di Israele è rimasta la stessa, nonostante il pesante prezzo pagato dai palestinesi durante la guerra e le difficoltà incontrate dall’esercito israeliano. Ma dopo aver letto le parole di Ramzy Baroud [l’articolo dell’editorialista palestinese, datato 23 dicembre 2014, è comparso sull’edizione on line del “The Palestine Chronicle” il 2 gennaio 2015. N.d.tr.] sul fatto che il 2014 è stato un anno di svolta per i palestinesi, mi ha colpito il fatto che il mio amico palestinese ed io non ci siamo poi sbagliati di tanto. Forse anche per gli israeliani il 2014 è stato un anno cruciale, un anno in cui le vecchie convinzioni in base alle quali Israele ha attuato per parecchi anni sono state indebolite, o addirittura morte.
I negoziati non sono eterni.
Il segretario di Stato americano John Kerry aveva fissato il 29 aprile come la data nella quale israeliani e palestinesi avrebbero dovuto raggiungere un quadro definito per un accordo di pace. Dall’inizio del 2014, tuttavia, è risultato evidente che questo obiettivo non sarebbe stato raggiunto. Gli americani speravano che sarebbero almeno riusciti a convincere le due parti a prolungare i negoziati per altri nove mesi, ma anche questo obiettivo è fallito.
Dagli accordi di Oslo del 1993 in poi, Israele e i palestinesi hanno portato avanti negoziati quasi permanenti. Questi negoziati hanno avuto i loro alti – la conferenza di Camp David nel maggio 2000, per esempio – e bassi, come durante il secondo governo Netanyahu dal 2009 al 2013. Ma hanno sempre arrancato.Da molti punti di vista, il processo negoziale è diventato un obiettivo in sé agli occhi di molti israeliani, non un mezzo per raggiungere un accordo finale con i palestinesi. Lo stesso fatto che Israele stesse negoziando con i palestinesi era percepito come una difesa dello Stato contro le pressioni internazionali, mentre gli consentiva di continuare con le sue politiche in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.
Ciò è risultato più evidente sotto il governo di Ehud Olmert, che è arrivato al potere nel 2006. Olmert si è gloriato del fatto che impegnarsi nei negoziati con il presidente palestinese Mahoud Abbas gli ha consentito di intraprendere due guerre distruttive – una contro Hezbollah in Libano e l’altra contro Hamas a Gaza (l’operazione “Piombo fuso”) – senza far fronte alle pressioni internazionali o a una condanna. La mancata ripresa del dialogo tra gli israeliani e i palestinesi nell’aprile 2014 ha interrotto questa lunga catena di negoziati. Inoltre la decisione del presidente Abbas di formare un governo di unità con Hamas e poi di fissare un percorso per il riconoscimento unilaterale dello Stato palestinese – culminando con l’attuale proposta di risoluzione presentata davanti al Consiglio di Sicurezza dell’ONU – ha messo in chiaro a Israele che non può più utilizzare i negoziati come una copertura per mantenere lo status quo. Se Benyamin Netanyahu sarà rieletto primo ministro nel marzo 2015, è difficile vedere come potrebbe essere possibile riprendere i negoziati. Se il leader del partito Laburista Yitzhak Hertzog prenderà il suo posto, i negoziati riprenderanno con una tabella di marcia stringente. Sembra che si sia concluso un processo senza fine.
Non si tratta neppure di un cambiamento da poco. Il crescente isolamento di Israele è il risultato diretto della dissoluzione dei negoziati. Se questa diventerà una realtà permanente, la posizione di Israele sarà sicuramente più debole. Gli accordi di Oslo hanno dato ad Israele una legittimità internazionale; il loro collasso può ribaltare molti di questi risultati.
I limiti del potere militare
E’ difficile descrivere i risultati dell’operazione “Scudo difensivo” [si tratta di un refuso, il giornalista si riferisce in realtà all’operazione “Margine difensivo”. N.d.tr.] come un fallimento di Israele dal punto di vista militare. Hamas non ha raggiunto il suo principale obiettivo nel conflitto: la revoca del blocco di Gaza. Invece Gaza è in rovina, più di 2.000 palestinesi – molti dei quali civili, ma almeno qualche centinaio di loro combattenti – hanno perso la vita, la capacità militare di Hamas è stata duramente colpita e così lo è la sua disponibilità a riprendere la lotta a breve.
Tuttavia le perdite di Israele non sono state minori: 72 persone sono state uccise, compresi 67 soldati, la maggior parte dell’economia del paese è stata paralizzata per 50 giorni, l’aeroporto internazionale Ben Gurion è stato chiuso per qualche giorno e il turismo è stato praticamente bloccato. Ma le capacità militari di Israele non sono state neanche lontanamente danneggiate e non ha nessuna difficoltà nel mantenere l’assedio di Gaza. Le sempre migliori relazioni con il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, anche lui impegnato nella lotta contro Hamas, ha rafforzato la posizione di Israele nei confronti del gruppo palestinese.
Nonostante questi risultati relativamente positivi, qualcosa di profondo è cambiato per Israele. Durante la seconda guerra del Libano nel 2006, Israele ha patito perdite più gravi, ma ha dovuto combattere contro un’organizzazione ben addestrata e ben equipaggiata. Hezbollah ha goduto dell’appoggio di un Paese sovrano, l’Iran, ed è stato in grado di muoversi dentro e fuori il fronte di guerra con relativa facilità.
Hamas non ha avuto niente di questo. I suoi razzi erano piuttosto rudimentali e costruiti artigianalmente, ed era chiuso in una stretta striscia di terra, tagliato fuori dall’appoggio del resto del mondo. Tuttavia Israele, con l’esercito più potente del Medio Oriente, non è riuscito a schiacciare questa piccola organizzazione o a obbligarla a rinunciare a lottare.
Ancora peggio, dicendo al governo che per prendere il totale controllo della Striscia di Gaza ” ci sarebbero voluti anni” al costo della vita di centinaia di soldati israeliani, l’esercito israeliano ha effettivamente ammesso che rioccupare Gaza non è nei suoi piani e che c’è un limite a quello che Israele può fare con il suo enorme potere. Non c’è da stupirsi che un ministro estremista di destra come Naftali Bennett si sia indignato; hanno rapidamente compreso il significato profondo di questa dichiarazione.
L’operazione “Margine difensivo” è stato forse il primo scontro militare diretto tra gli israeliani e i palestinesi condotto su terra palestinese dal 1948; le due Intifada palestinesi hanno avuto caratteristiche diverse, e la guerra del 1982 tra le forze militari dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e Israele ha avuto luogo in Libano.Il fatto che la guerra di quest’estate a Gaza non sia finita con una vittoria schiacciante di Israele potrebbe essere facilmente interpretata come il fatto che Israele non può risolvere il suo conflitto contro i palestinesi con la forza.
Lo status quo sta andando a pezzi
Quando il governo del dimissionario Netanyahu è stato formato nel marzo 2013, uno dei suoi principali principi non dichiarati era mantenere lo status quo. E’ stato solo su questa base che Bennett, sostenitore dell’annessione [della Cisgiordania], e l’eroe della classe media Yair Lapid hanno formato un’alleanza. Si pensava che Lapid, come ministro delle Finanze, avrebbe lottato contro il caro vita. Come ministro dell’Economia, a Bennett è stato consentito espandere le colonie ebraiche in Cisgiordania. Era chiaro a entrambi i ministri che non ci si potevano aspettare cambiamenti nei rapporti tra Israele e i palestinesi nel futuro immediato. L’improvviso e imprevisto scioglimento del governo in novembre, pertanto, è stato piuttosto una conseguenza del crollo dello status quo dopo la guerra a Gaza.
Lo stesso Netanyahu rappresenta questo status quo più di chiunque altro. L’uomo descritto come “Re Bibi” da “Time Magazine” nel maggio 2012 si è meritato questo titolo garantendo a Israele un lungo periodo di calma, senza conflitti militari e attacchi terroristici e un’economia relativamente stabile. La sua caduta in disgrazia – anche se riuscisse vincere le prossime elezioni – rappresenta una crescente incertezza tra gli israeliani rispetto al futuro.
Molti temono che la strada tracciata da Netanyahu non li porti da nessuna parte.
In un recente sondaggio pubblicato dalla rivista +972 [rivista on line israeliana che si oppone all’occupazione. N.d.Tr.] l’appoggio allo status quo tra gli israeliani è notevolmente sceso. Quando viene chiesto quale visione complessiva preferiscano per il futuro del conflitto, il 56% opta per una soluzione dei due Stati, il 25% dice di preferire uno Stato unico “diseguale” su tutta la Palestina storica (nel quale gli arabi avranno meno diritti degli ebrei), il 10% vorrebbe un unico Stato ugualitario e solo il 10% pensa che sarebbe positiva la continuazione dell’attuale situazione.
Si tratta di un risultato significativo. Eran Etzion, un ex alto funzionario del ministero degli Esteri israeliano, dice che la mappa politica israeliana potrebbe essere divisa in due campi: il “partito dello status quo”, e il “partito di un accordo di pace”. Per molti anni, il primo è stato in costante aumento, mentre l’altro è sceso. L’ultima guerra di Gaza, gli sporadici attacchi palestinesi contro israeliani a Gerusalemme, in Cisgiordania e persino all’interno di Israele e la crescente sensazione di isolamento internazionale hanno provocato una riduzione dell’appoggio al “partito dello status quo”. Netanyahu potrebbe vincere di nuovo le elezioni, ma gli risulterà difficile convincere gli israeliani che le cose possano rimanere tali e quali.
Con i negoziati svaniti, i limiti dell’uso della forza più evidenti che mai e lo status quo che sta perdendo di importanza, Israele sta entrando in una nuova fase: è troppo presto per dire dove questo ci porterà, ma forse il 2014 è stato l’anno in cui è cominciato questo significativo cambiamento.
Meron Rapoport è un giornalista e scrittore israeliano, vincitore del premio internazionale di giornalismo Napoli per un’inchiesta sul furto di ulivi di proprietà di palestinesi. E’ ex-capo redattore di Haaretz ed ora è un giornalista indipendente.
Le opinioni espresse in questo articolo riguardano l’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Eye.
(Traduzione di Amedeo Rossi)