Da nove anni il Servizio Civile Internazionale, Un ponte per…, Rete IPRI e Centro Studi Sereno Regis, con il sostegno di Assopace Palestina, affiancano e proteggono i contadini palestinesi nella raccolta delle olive, un pilastro della produzione agricola nei Territori occupati
di Fabrizio Astolfoni – foto di Livia Cozzolino
Gerusalemme, 17 novembre 2018, Nena News – Non è certo semplice sintetizzare in poche righe l’intensa esperienza di quattro settimane appena trascorsa in Cisgiordania. Da ben nove anni il Servizio Civile Internazionale, Un ponte per…, Rete IPRI e Centro Studi Sereno Regis, con il sostegno di Assopace Palestina, organizzano il progetto Interventi Civili di Pace in Palestina, con l’obiettivo di affiancare i contadini palestinesi nella raccolta delle olive. Raccolta che purtroppo diventa sempre più complessa: spesso i contadini possono raccogliere i prodotti delle loro terre soltanto in alcuni periodi stabiliti unilateralmente dall’amministrazione civile israeliana; i coloni sono soliti sradicare, bruciare o in qualche modo danneggiare migliaia di olivi ogni anno. Tali soprusi fanno parte della strategia sionista di repressione e di appropriamento delle terre palestinesi. Se da un lato l’esercito israeliano difficilmente si oppone a tali azioni, ed è anzi troppo spesso complice di questa strategia di espropriazione dei terreni dei palestinesi, dichiarandoli zone militari, anche l’Autorità Palestinese, dall’altro, risulta debole o assente nel supportare e difendere i diritti di contadini e allevatori.
Proprio per questo la presenza dei gruppi di volontari internazionali può essere un forte ostacolo alle mire dei coloni. Effettivamente l’obiettivo del progetto è sia la tutela del diritto dei contadini a raccogliere i frutti dei loro terreni, sia essere presenti per mitigare la violenza causata da coloni e militari, i quali impediscono una tranquilla raccolta. Inoltre, utilizzando un approccio il più possibile empatico, abbiamo tentato di dare voce, attraverso interviste o semplici chiacchierate, alle persone che ci hanno donato la loro quotidianità, invitandoci a casa o nei loro posti di lavoro. L’idea è quindi di diffondere, attraverso articoli di blog, foto e video, quali sono le dinamiche di potere presenti nell’occupazione israeliana e quali sono le strategie di resistenza attuate dalla popolazione palestinese.
Durante questo mese ci siamo recati in diversi territori della Cisgiordania, dove l’instabilità strutturale che permea la quotidianità dei palestinesi è evidente. Sono diversi i luoghi da noi visitati, testimoni della violenza esplicita ed implicita attuata dalle politiche israeliane. Il villaggio di Burin, nel distretto di Nablus, è stata la nostra prima tappa: qui siamo stati testimoni del dispiegamento capillare e rapidissimo dei cosiddetti “flying checkpoints”, ovvero gli improvvisi posti di blocco con cui i gli israeliani possono chiudere in pochi minuti la Cisgiordania. Altra tappa importante del nostro viaggio è stato il villaggio di At Twani, nelle colline a sud di Hebron. La comunità è non solo costretta a confinare con un’enorme “firing zone,” ovvero una zona utilizzata per esercitazioni militari dall’esercito israeliano, ma anche con diverse colonie ed avamposti che si espandono, influenzando la vita dei locali, ogni anno sempre di più. Il villaggio beduino di Khan al ahmar e la sua Scuola di Gomme, nella Valle del Giordano, che da anni è sotto ordine di demolizione da parte delle Corte suprema israeliana. Infine Hebron, forse la città che, nella sua interna divisione tra H1 araba e H2 ebraica, è il simbolo più emblematico dell’occupazione militare e abitativa sionista nei Territori Palestinesi.
Giorno dopo giorno, raccolta dopo raccolta, ci siamo sempre più abituati ai ritmi di lavoro palestinesi, piacevolmente scanditi da diverse pause e pasti ristoratori: hummus, makluba, falafel, kanafeh sono le tipiche pietanze palestinesi ci hanno rifocillato dal duro lavoro quotidiano. Momenti importanti non solo per le nostre pance ovviamente, ma utili per farci raccontare qualcosa di più dalle persone direttamente colpite da questo intollerabile e vergognoso sistema di apartheid. Non ci vengono narrate soltanto storie di soprusi, occupazione, arresti e violenze: i palestinesi vogliono vivere una vita normale, per quanto possibile. Abbiamo condiviso con i nostri ospiti piacevoli momenti di convivialità, gioco e distrazione: danze, falò, narghilè e perfino spettacoli di Dabkah, la tradizionale danza palestinese.
Fortunatamente sono diverse le strategie di resistenza e resilienza da noi incontrate. A Burin l’associazione Target organizza, tra le altre attività laboratoriali per giovani e adulti e con moltissime difficoltà logistiche, il Kite Festival da parecchi anni, un momento di festa, resistenza e speranza: la bandiera palestinese viene fatta volare alta sopra le colline e quindi sopra le colonie, ciò ha un effetto visivo altamente simbolico per tutti coloro che vi assistono. Encomiabile il lavoro dei ragazzi del villaggio di At Twani, i quali hanno restaurato le grotte del villaggio di Sarura, i cui abitanti alla fine degli anni Novanta furono cacciati dall’esercito israeliano per rendere la zona area militare ed è tutt’oggi minacciato dall’espansione della vicina colonia di Ma’on. L’obiettivo è rendere tali grotte dei luoghi comunitari, disponibili a tutti, utili per eventi pubblici culturali e spazi di discussione, Noi stessi siamo stati ospiti di queste grotte nel deserto, dove abbiamo cenato, ballato la dabkah, ed infine anche dormito, per mostrare il nostro pieno appoggio e sostegno a questo coraggioso esempio di resilienza. Per non parlare dell’attivismo dei ragazzi di Youth Against Settlements, l’associazione che combatte l’occupazione di Hebron e supporta le famiglie esposte alla violenza della colonizzazione. Le attività promosse dal centro tentano di alzare i costi dell’occupazione, nonostante le enormi disponibilità economiche dei coloni, ovviamente supportati dal governo israeliano. Dalla nostra esperienza è risultato anche fondamentale che i palestinesi non siano lasciati soli in questa importante battaglia che, per quanto si giochi sulle loro terre, riguarda tutti noi, e quindi tutti, anche gli internazionali, sono chiamati a partecipare attivamente a questa resistenza “dal basso”.
L’olivo, simbolo delle terre palestinesi, non ha soltanto un evidente valore nell’economia palestinese, che è costantemente ostacolata e limitata dalle politiche di embargo sioniste. L’assidua presenza nei terreni dei contadini palestinesi, i quali reclamano il diritto a coltivare la propria terra si oppone anche all’espansione coloniale. La raccolta delle olive rappresenta quindi una forte appartenenza e continuità, un rapporto di cura della terra che dura da secoli, una conoscenza trasmessa in maniera intergenerazionale nelle famiglie, con un importante significato socioculturale. Un vero atto di resistenza nei confronti non solo dell’espropriazione dei terreni da parte dei coloni, ma anche verso un sistema coloniale e post-coloniale che tutt’ora caratterizza le relazioni di potere imposte nella regione e su cui tutti dovremmo interrogarci, valutando complicità e responsabilità, elaborando strategie di solidarietà, resistenza e resilienza trasversali. Nena News