Distrutti due grandi serbatoi per lo stoccaggio del greggio a Sidra e Ras Lanuf. Gli uomini di Haftar accusano l’Italia di voler destabilizzare il paese, ma in corso nella Mezzaluna petrolifera c’è lo scontro tra il generale e i signori della guerra di Brega
di Rachele Gonnelli – Il Manifesto
Roma, 19 giugno 2018, Nena News – I terminal petroliferi libici dei porti di Sidra e Ras Lanuf sono di nuovo in fiamme e una coltre di fumo plumbeo e denso è arrivata fino alla città di Brega. La compagnia libica Noc ha fatto una prima stima dei danni: 800 milioni di dollari. Nel ginepraio libico, in questi giorni particolarmente rovente, c’è persino chi (il figlio di un generale di Haftar dal Cairo) accusa l’Italia di essere insieme a Qatar e Turchia, uno dei paesi che, per interessi politici e economici, sta appiccando l’incendio e destabilizzando ulteriormente il Paese affinché nulla cambi.
Due grandi serbatoi per lo stoccaggio del greggio, il numero 2 e il numero 12, sono andati distrutti nelle ultime ore nel corso dei combattimenti che da una settimana vedono contrapposte le truppe del generale Haftar e le milizie con a capo Ibrahim al Jadhran. Il trentunenne Jadhnan è una sorta di «signore della guerra» della città di Brega: dopo aver combattuto a fianco delle milizie della città-Stato di Misurata nella rivolta del 2011 è stato messo a capo delle guardie petrolifere, milizie specializzate nel garantire la sicurezza degli impianti, anche in virtù del grande arsenale di armi sottratto alle truppe gheddafiane.
Nemico acerrimo di Haftar fu estromesso con le sue guardie dalla lucrosa protezione di pozzi e tubi dallo stesso governo di Tripoli di Serraj dopo aver perso il primo confronto armato con Haftar per il controllo dei terminal due anni fa. Ieri Jadhran ha dichiarato che i serbatoi di greggio di Ras Lanuf sono stati distrutti da raid dell’aviazione di Haftar e ha confermato che nel lanciare l’offensiva per la riconquista dei porti i suoi uomini sono spalleggiati dalle Brigate di difesa di Bengasi – per Haftar «terroristi» – e da mercenari del Ciad.
I libici hanno molto chiaro che i loro destini sono legati al petrolio, più che ai migranti africani. Nel Paese che sotto Gheddafi produceva 1,6 milioni di barili di greggio di alta qualità al giorno, riempiendo le casse dello Stato oltre ai portafogli dei clan al potere, oggi scarseggiano i rifornimenti di benzina, l’energia elettrica va e viene nelle case e i pozzi non riescono a produrre più 240 mila barili al giorno.
Il vicepremier Salvini in varie interviste ieri ha detto che il premier di Tripoli Serraj «ha chiesto all’Italia un intervento» e che il governo di Roma è pronto «con la Nato» a intervenire «per la lotta al terrorismo». Salvini ribadisce di voler recarsi presto in Libia e, parlando della recente conferenza sulla Libia organizzata a Parigi dal presidente francese – il cui unico risultato è stato quello di ribadire la necessità di elezioni politiche entro dicembre – ha aggiunto: «Non capisco da che pulpito voglia (Macron) voglia fissare le elezioni, abbiamo visto che certe imposizioni non funzionano».
Macron (alleato di Haftar) l’altra sera ha avuto un colloquio telefonico con Serraj, per ottenere dal principale alleato italiano la conferma della data delle elezioni e per ribadirgli en passant l’impegno a una maggiore cooperazione bilaterale. Anche Salvini promette «infrastrutture, strade, ospedali», altre dieci motovedette per la Guardia costiera di Serraj e centri di detenzione per migranti in Libia.
Il comandante della Guardia costiera di Zawia, Abdelrahman al Milad, è tra i sei boss del traffico di esseri umani colpiti a inizio mese da sanzioni Onu. Un altro, Ammu Dabbashi gestiva un centro di detenzione. Human Right Watch in un rapporto ieri ha accusato l’Italia di estendere il potere dei guardiacoste libici pur consapevole dei rischi di abusi e torture.