L’Anp blocca l’ingresso dei prodotti di 5 compagnie israeliane in risposta alla stessa decisione presa da Israele nei confronti di società palestinesi. Netanyahu si dice pronto al negoziato, ma pone già le solite precondizioni
di Chiara Cruciati
Gerusalemme, 23 marzo 2016, Nena News – Cinque compagnie israeliane bandite dai Territori Occupati: la decisione è stata presa ieri dall’Autorità Palestinese nei confronti di cinque aziende che producono cibo e bevande. Una scelta, si legge nel comunicato dell’Anp, che giunge in risposta al divieto per cinque compagnie palestinesi a introdurre i propri prodotti nel mercato israeliano.
Il mese scorso le autorità di Tel Aviv avevano punito i Territori cancellando l’autorizzazione a cinque aziende palestinesi (al-Juneidi, al-Rayyan, Salwa, Siniora e Hamoda, tutte specializzate in prodotti caseairi e salumi) a far entrare a Gerusalemme, attraverso il valico di Betunia, i propri prodotti. Una decisione che il premier palestinese Hamdallah aveva definito “razzista e volta a isolare Gerusalemme e a cancellarne l’identità”.
E se Israele viola così gli accordi commerciali con la controparte, a pagarne le spese sono i produttori palestinesi: secondo Fadi Abu Hilweh, direttore del marketing della compagnia Hamdosa, le cinque società potrebbero perdere 310 milioni di dollari l’anno, visto che il 50% della loro produzione viene venduta proprio a Gerusalemme e nelle città palestinesi dentro Israele. Un duro colpo per un’economia, quella palestinese, annullata dall’occupazione che impedisce l’utilizzo libero e continuativo delle risorse naturali, delle terre e dei confini verso l’esterno. Le poche aziende capaci ancora di produrre vengono punite per l’attuale sollevazione.
Parte così la guerra del boicottaggio vicendevole. Le società israeliane coinvolte sono Tnuva (prodotti caseari), Strauss (cioccolata e bevande), Tara (prodotti caseari), Soglowek (verdure) e Tapuzina (bevande). I beni già presenti negli scaffali dei supermercati palestinesi non saranno eliminati, ma si darà il tempo ai negozianti di venderli, per poi fare entrare in vigore il divieto.
Sullo sfondo sta una sorta di “guerra commerciale”, facilmente vinta dall’autorità occupante che gestisce confini e risorse e che ha invaso un mercato prigioniero, quello palestinese, di propri prodotti per la mancanza di alternative locali, appunto dovuta all’assenza di un’economia di produzione strutturata.
Non cessa neppure la “guerra diplomatica”, arricchita ieri dalle dichiarazioni del premier israeliano Netanyahu che si è detto pronto a sedersi al tavolo con la controparte palestinese per un negoziato “senza condizioni, immediatamente, ovunque e in qualsiasi momento”.
“La migliore formula per archiviare la pace resta la soluzione di due Stati per due popoli nel quale uno Stato palestinese demilitarizzato riconosca finalmente lo Stato ebraico”, ha detto il premier in un video mandato alla conferenza annuale della lobby ebraica statunitense Aipac.
Eppure questi due elementi – demilitarizzazione e riconoscimento della natura ebraica dello Stato di Israele – appaiono già come le prime due precondizioni. L’Anp si è sempre detta contraria a riconoscere Israele come Stato ebraico, vista la presenza di quasi due milioni di palestinesi non ebrei, la cui discriminazione – già oggi istituzionalizzata da una 50ina di leggi – finirebbe per essere permanente.
Dopotutto Netanyahu non è nuovo a “postille” che non definisce precondizioni quando in effetti lo sono: negli ultimi anni ogni volta che si è tentato di far ripartire il negoziato, il premier prima si è detto pronto a discutere e poi ha elencato i punti intoccabili: Gerusalemme, rifugiati palestinesi all’estero, prigionieri politici, espansione coloniale. Da discutere resta ben poco.
Le spalle israeliane però restano ben coperte: nei giorni scorsi l’Autorità Palestinese ha denunciato l’intenzione del Congresso statunitense di bloccare aiuti per 159 miliardi di dollari a Ramallah se non riprenderà le trattative di pace con Israele. Niente di nuovo sotto il sole: per un governo che vive di aiuti internazionali, la migliore arma di pressione è da sempre il congelamento dei fondi. Nena News
Chiara Cruciati è su Twitter: @ChiaraCruciati