In visita ieri ai quartieri emarginati di Tel Aviv dove alta è la presenza dei richiedenti asilo, il premier israeliano ha promesso di “restituirli” ai loro abitanti israeliani. Il governo ha già pensato ad un piano in tre punti per risolvere il problema dei “clandestini”
di Roberto Prinzi
Roma, 1 settembre 2017, Nena News – Difficoltà di governo? Accuse di corruzione sempre più pressanti? Calo dell’appeal politico? C’è una ricetta che va sempre bene in questi casi: attaccare gli immigrati. La regola vale anche in Israele dove un Netanyahu indebolito da mesi di attacchi all’interno della sua coalizione governativa, criticato da ampie parti del mondo ebraico (soprattutto dai Conservative e i Riformati nord-americani) per aver ceduto alle pressioni degli ambienti ultraortodossi e incalzato dalle inchieste della giustizia, si è recato ieri nei quartieri a sud di Tel Aviv da sempre emarginati dalla politica locale (laburista) e nazionale (da oltre un decennio nelle saldi mani della destra).
Zone dormitorio, veri e proprie ghetti sociali così lontani (eppur vicinissimi a piedi) da quella Tel Aviv esaltata da brochure turistiche e dai vari cantori internazionali dei prodigi israeliani. Saviano in testa. Parliamo di Shapira, Tikva, Neve Sha’anan dove le tensioni tra i residenti locali ebrei e la comunità di immigrati e richiedenti asilo (che nel 2012 diedero vita ad una serie di pogrom fascisti dei primi contro i secondi) restano vive anche nei periodi di relativa calma come quelli attuali.
Netanyahu, accompagnato dai ministri della pubblica sicurezza Gilad Erdan e della cultura Miri Regev, ha agito secondo un collaudato copione: di fronte ad una popolazione emarginata economicamente e socialmente e impaurita dal “pericolo” del forestiero (“sono loro i responsabili dei crimini” hanno ribadito ieri i residenti) Bibi ha ostentato sicurezza. Così, come da prassi in questi casi, sono stati utilizzati toni bellici: “Il governo restituirà i quartieri ai suoi residenti israeliani”. È una guerra: i territori “occupati” (non quelli palestinesi, sia chiaro) vanno ripuliti. Anzi, con un tecnicismo, vanno “bonificati”.
“Siamo qui in missione per riportare il sud di Tel Aviv ai suoi cittadini” ha tuonato Bibi ribadendo la metafora della spedizione militare. “Ascolto gli abitanti e quel che sento è dolore e crisi. Le persone hanno paura di lasciare le loro case”. A dargli manforte è la ministra Regev che ha costruito la sua carriera politica attaccando i cittadini israeliani. Ovviamente quelli indesiderati: i palestinesi. Lo scenario tinteggiato da Regev è apocalittico: “La gente qui è rifugiata nel loro Paese” ha subito esclamato prendendo facili applausi. Come se gli abitanti di Tikva, Shapira potessero essere paragonabili agli sfollati interni siriani o yemeniti. O perché no? Palestinesi. “Questi [i richiedenti asilo, ndr] non sono rifugiati, sono mistanenim, infiltrati. Abbiamo bisogno di leggi contro i datori di lavoro che pagano i salari agli infiltrati che impiegano. Dobbiamo far sì che i proprietari di case che affittano i loro appartamenti agli infiltrati non lo facciano permettendo a questi, senza alcun controllo, di fare delle loro proprietà quello che vogliono”.
Il governo, ha poi annunciato Netanyahu, si muoverà su tre piani per risolvere questo “problema”: la recinzione di sicurezza lungo il confine con l’Egitto che ha già avuto un significativo successo nel ridurre il numero degli immigrati giunti in Israele dall’Africa; pene più dure per datori di lavori che assumano i “clandestini” e per quest’ultimi che violano la legge. Terzo e ultimo punto: la creazione di una commissione ministeriale che sarà guidata dal premier in persona.
Slogan politici o pratiche effettive che saranno implementate? Che il governo attuale (e quelli precedenti sempre guidati da Netanyahu) abbia fatto di tutto per sbarazzarsi dei richiedenti asilo è fuori di dubbio. Nel costruire odio e nemici immaginari, la coalizione di centro destra di Bibi potrebbe tenere lezioni nella sempre più xenofoba Europa. Eppure sono bastate queste promesse per riscuotere facili consensi presso una popolazione locale stanca di essere discriminata dall’élite ashkenazita, frustrata dalla sua marginalità ma che non ha capacità di analisi, volontà e mezzi per scaricare la sua rabbia sociale contro chi la governa e non contro chi, a sua volta, è ancora più di debole e indifesa.
In questa operazione di costruzione del nemico sono stati bravi i vari governi di destra che si sono succeduti: invece di agire con manovre economiche affrontando i problemi reali delle classi svantaggiate che popolano le aree a sud di Tel Aviv e delle “città di sviluppo” israeliane, la maggioranza alla Knesset si è limitata soltanto a incanalare il malessere verso lo spauracchio dei mistanenim rimandando ad un tempo imprecisato, a colpi di decreti e bozze di leggi anti-clandestini, la risoluzione politica del disagio sociale.
Per ora sembra bastare a placare la furia locale: applausi per Regev e Bibi, cori contro la Corte Suprema. Il massimo tribunale israeliano, secondo loro, starebbe difendendo gli “infiltrati”, ritenuti i responsabili dell’aumento dei crimini e delle violenze nei loro quartieri. Di fatto, quindi, sarebbe un organismo anti-israeliano per il fatto stesso di costituire un argine legale, seppur fragile, contro le espulsioni e le detenzioni degli immigrati volute fortemente da Tel Aviv. Eppure proprio lunedì dalla Corte Suprema erano arrivate aperture verso il governo: secondo l’Alta Corte, Israele potrà continuare a deportare gli “immigrati illegali” verso un paese terzo, ma non potrà imprigionare coloro che si rifiuteranno di andarci per più di 60 giorni (Tel Aviv ha già arrestato in passato i richiedenti asilo per più di 12 mesi nella struttura “aperta” di Holot, in pieno deserto).
Così facendo il massimo tribunale ha rigettato una petizione dei gruppi umanitari locali contro la pratica dei respingimenti (illegale dal punto di vista del diritto internazionale, come l’Italia dovrebbe sapere bene) anche se ha precisato che tali deportazioni devono avvenire solo con l’accordo dei diretti interessati (ovvero gli immigrati) e se il paese di destinazione è sicuro. Il rifiuto a lasciare Israele – ha precisato la Corte – non può essere considerato comportamento non collaborativo.
Le decisioni dell’alta Corte stridono però con la realtà. Quale immigrato dovrebbe essere d’accordo a essere respinto in un altro Paese in cui non ha garanzie di alcun tipo? A giugno il sito di Foreign Policy aveva documentato come molti immigrati deportati da Israele erano stati trasferiti in Ruanda e Uganda (paesi già di per sé instabili politicamente). Intervistati, i rifugiati avevano denunciato di non avere documenti legali, di non ricevere l’assistenza medica promessa dalle autorità israeliane e di essere stati incoraggiati ad entrare legalmente in un altro stato.
Dal 2009 all’inizio del 2015 i richiedenti asilo sudanesi hanno inviato alle autorità israeliane 3.165 richieste di asilo (fonte HaAretz). Lo stato ebraico ha risposto solo all’1,42% delle richieste (45 persone), rifiutandole 40 immediatamente e garantendo protezione temporanea solo a cinque persone. Secondo il Centro di sviluppo del rifugiato africano, ci sono 46.437 africani in Israele che si considerano richiedenti asilo. Il 73% sono eritrei mentre il 19% sudanesi. Nena News
Roberto Prinzi è su Twitter @Robbamir