Ieri un tribunale israeliano ha condannato la giornalista palestinese Dweik a sei mesi di carcere per un post su Facebook in cui “istigava alla violenza”. Un caso non solitario: il governo Netanyahu pensa a una legge che obblighi i maggiori provider a rimuovere il contenuto “criminale”. Ramallah, però, attacca: “è l’esecutivo israeliano a promuovere odio e violenza”
della redazione
Roma, 19 luglio 2016, Nena News – Continua la battaglia d’Israele contro i social network. Ieri un tribunale israeliano ha condannato a sei mesi di carcere la giornalista palestinese Samah Dweik di Shabakat al-Quds per un post su Facebook in cui “istigava alla violenza”. Secondo Amjad Abu Asad, capo del Comitato di Gerusalemme per le famiglie dei prigionieri, il “reato” di Dweik è stato quello di scrivere uno stato sul noto social network accompagnandolo da una foto di palestinesi recentemente uccisi dalle forze armate israeliane.
Il caso della giornalista palestinese non è l’unico. Negli ultimi mesi Tel Aviv ha arrestato diversi palestinesi con la stessa accusa: a maggio il Centro studi sui prigionieri palestinesi (Ppcs) ha calcolato che da ottobre almeno 28 donne sono state incarcerate dallo stato ebraico per “istigazione” tramite i social. Sei di loro – tra queste anche Dweik – restano dietro le sbarre.
Di fronte a quella che avverte come minaccia cibernetica, lo stato ebraico ha più volte accusato Facebook per non aver censurato post e commenti che promuovo “il terrorismo contro gli israeliani”. Il ministro della pubblica sicurezza israeliano, Gilad Erdan, ha recentemente attaccato il suo fondatore, Mark Zuckerberg, perché non avrebbe adeguatamente cooperato con Tel Aviv per rimuovere il contenuto di alcuni post e commenti giudicati violenti. Per questo motivo, sostiene il ministro, Zuckerberg avrebbe “le mani sporche di sangue”. A dargli manforte è stata la titolare del dicastero di Giustizia Ayelet Shaked (Casa Ebraica): in fase di progettazione c’è una legge che obbligherà provider come Facebook, Google, You Tube e Twitter a rimuovere i contenuti “criminali” che costituiscono un “pericolo alla persona, al pubblico o alla sicurezza dello stato”.
Ma Erdan e Shaked non sono i soli a scagliarsi violentemente contro il noto programma di comunicazione. Un avvocato israeliano ha recentemente chiesto a Facebook un risarcimento di un miliardo di dollari perché permetterebbe al movimento islamico di resistenza palestinese (Hamas) di progettare e compiere attacchi contro americani e israeliani.
Se Zuckerberg prova a stemperare i toni negando qualunque responsabilità del suo programma negli attacchi in corso da ottobre in Israele e Cisgiordania, ad intervenire a gamba tesa nella vicenda è il Segretario generale dell’Organizzazione della Liberazione della Palestina (Olp), Saeb Erekat. Per l’alto funzionario dell’Olp, le colpe sono infatti tutte del governo israeliano che non riesce a “promuovere una cultura di pace e di consistenza all’interno della società israeliana”. Secondo Erakat, quello che istiga alla violenza è la protezione istituzionale che Tel Aviv dà ai cittadini israeliani ebrei che commettono e incitano alla violenza, sono le politiche del governo Netanyahu intrise di “odio, razzismo e di atteggiamenti discriminatori contro i palestinesi”.
Un “odio” che sarebbe “crescente” secondo anche il leader laburista israeliano Isaac Herzog. Citato dal portale ebraico Nrg, Herzog ha puntato il dito contro i politici di destra che incoraggerebbero il clima di ostilità all’interno d’Israele e fornirebbero l’humus alla violenza. “Assistiamo [ad episodi] di odio in ogni momento, sia quando questo è diretto contro le donne da parte dei rabbini militari, sia quando proviene dagli ebrei ashkenaziti verso quelli sefarditi, o dai mizrahi a quelli sefarditi, dai rabbini delle scuole militari verso gli omosessuali, o tra gli arabi e gli ebrei”. Herzog ha fatto esplicito riferimento alla recente nomina a capo dei servizi di rabbinato dell’esercito israeliano di Eyal Karim, noto per aver implicitamente giustificato nel 2012 lo stupro di donne in tempi di guerra.
Non è la prima volta che il moderato leader laburista usa parole così dure per descrivere la società israeliana. A inizio mese – in seguito all’approvazione della “legge per la trasparenza” per la quale le Ong finanziate in prevalenza dall’estero dovranno precisare dal 2017 l’origine e l’entità delle donazioni ricevute – Herzog ha detto che “in Israele il fascismo prospera e va crescendo”.
Sembra essere finito, intanto, il calvario dell’obiettrice di coscienza israeliana Tair Kaminer detenuta per 159 giorni in un carcere israeliano per essersi rifiutata di compiere il servizio militare. Ieri infatti la diciannovenne è stata rilasciata ed è stata dispensata dall’obbligo di leva perché giudicata “non idonea” a compierlo per “cattiva condotta”.
Kaminer aveva chiesto di essere esentata dalla chiamata alle armi per “motivi di coscienza”, ma si era detta disponibile a mutarla in servizio civile. In un articolo apparso a giugno sul quotidiano israeliano Ha’Aretz, la giovane aveva detto di essere in prigione perché “lo stato non rispetta la mia coscienza. Sono in carcere perché non voglio essere parte di quel crimine chiamato occupazione”.
Una voce fuori dal coro quella di Tair. Ieri il presidente della Knesset, Yuli Eldestein (Likud), l’ha voluto ribadire quando ha affermato di essere favorevole all’annessione della colonia di Ma’ale Adumim (est di Gerusalemme). Nena News