Entro la fine dell’anno si voterà in Consiglio di Sicurezza la proposta palestinese per il riconoscimento dello Stato. Tante le voci critiche dentro Fatah, mentre Tel Aviv prosegue indisturbato con demolizioni e colonizzazione.
della redazione
Gerusalemme, 23 dicembre 2014, Nena News – Israele e Autorità Palestinese corrono su binari diversi. O meglio Tel Aviv corre, con un obiettivo preciso; Ramallah arranca, ponendosi da sola barriere e ostacoli. All’Onu l’Anp tentenna, presenta risoluzioni, le rivede, le ammorbidisce, cerca consenso su un progetto di Stato che nella pratica non esiste, di cui i confini non esistono. Da parte sua Israele prosegue con la nota politica dei fatti sul terreno, azzoppando irrimediabilmente i sogni di gloria palestinesi.
I fatti sul terreno sono tanti, soprattutto a Gerusalemme, preda di entrambi, dal 1967 saldamente in mano israeliana. Ieri le autorità di Tel Aviv hanno consegnato altri cinque ordini di demolizione su case palestinesi a Gerusalemme Est. Tra queste l’abitazione di Akram al-Shurafa, nel quartiere di al-Tur. Al-Shurafa è tra i 5 palestinesi residenti a Gerusalemme (Daoud al-Ghoul, Faris Abu Ghannam, Salih Dirbas e Majed Darwish) ad essere stato deportato per 5 mesi (fino al 30 aprile 2015) dalla città santa per le attività politiche svolte.
La casa in questione, costruita nel 1938, dieci anni prima la nascita dello Stato di Israele, ha tutti i documenti di proprietà in regola – dice alla stamoa al-Shurafa – e i legittimi proprietari sono i nonni. Insomma, l’attivista non ha legami legali con la casa. Ma tant’è, sarà demolita. Sarà demolita come quella di Talal al-Sayyad e Basil al-Sayyad, a cui l’ordine di distruzione è stato consegnato sebbene non ne siano i proprietari, quella di Abdullah al-Hadera vecchia di 50 anni, e quella di Nadia al-Moghrabi, da poco arrestata insieme alla figlia.
I casi in questione mostrano come la demolizione di case a Gerusalemme sia utilizzata principalmente come strumento di punizione collettiva verso la popolazione e verso le famiglie di coloro che sono considerati un pericolo per lo Stato di Israele. Lo scorso mercoledì erano stati consegnati nel quartiere di Silwan 11 ordini di demolizione, facendo ulteriormente impennare il numero totale: secondo l’agenzia Onu Ocha, dall’inizio del 2014, Israele ha demolito 543 strutture a Gerusalemme, rendendo senza tetto almeno 1.266 persone.
E se nei Territori Occupati Israele opera con la colonizzazione, dentro il proprio territorio lo strumento è la cancellazione dell’identità. Lo sanno bene a Beer Sheva (Bir al-Sabaa, il nome originale arabo), città palestinese dopo il 1948 trasformata in città israeliana, con la cacciata di 80mila palestinesi sui 90mila totali residenti all’epoca: degli edifici originali in piedi resta ben poco, tra questi la moschea.
Costruita nel 1906 e inutilizzabile dai fedeli musulmani dal 1948 per ordine delle autorità israeliane che l’hanno utilizzata prima come centro detentivo, poi come tribunale fino al 1953, la Grande Moschea di Beer Sheva diventerà a breve un museo. Una mostra sarà organizzata al suo interno, fino al giugno 2015, nonostante le proteste dei 10mila palestinesi residenti in città, per lo più beduini, che da anni combattono per riavere indietro il luogo di preghiera e per fermare il progetto israeliano di riscrittura della storia e modifica dell’identità culturale della Palestina storica.
In un simile contesto gli sforzi dell’Anp al Palazzo di Vetro appaiono ancora più deboli. Ieri il capo negoziatore palestinese, Saeb Erekat, ha detto che il voto sulla risoluzione di riconoscimento dello Stato di Palestina in Consiglio di Sicurezza Onu si terrà prima della fine dell’anno. Il veto statunitense è dato per certo dal premier israeliano Netanyahu, dopo un incontro la scorsa settimana con il segretario di Stato Usa Kerry che da giorni gira l’Europa per annacquare la proposta palestinese a seguito del voto di Bruxelles a favore di uno Stato di Palestina e quindi la fine dell’occupazione militare di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est.
Non mancano i mal di pancia dentro la stessa leadership palestinese. Dentro Fatah, partito del premier Abbas, ci si lamenta per la mancata presentazione della proposta al’Olp e al partito prima di rivolgersi all’Onu, ma anche perché la richiesta di uno Stato entro i confini del 1967 per alcuni non rappresenta le legittime aspirazioni palestinesi. Tra questi c’è il leader prigioniero Marwan Barghouti che ha chiesto alla leadership dell’Anp di rivedere subito il testo della risoluzione che ad oggi concederebbe troppo a Israele, negando i diritti del popolo palestinese, e non tratterebbe questioni centrali come il blocco della Striscia e i prigionieri politici.
Le critiche sono tante, specchio delle divisioni interne al mondo politico palestinese. Ad oggi nessuno ha ancora chiesto al popolo palestinese cosa ne pensi. Israele intanto corre sul suo binario. Nena News